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sabato, Dic 12

Come stanno le carceri italiane dopo un anno di pandemia



Da Wired.it :

Alcuni vecchi problemi, come il sovraffollamento, sono accentuati, i dati dei contagi sono parziali e per evitare focolai le visite dei parenti sono ancora proibite: piccola inchiesta sulle strutture dimenticate dall’Italia alle prese col virus

Cosa sta succedendo nelle carceri italiane durante questi mesi di pandemia? Sono, o no, dei luoghi sicuri? La domanda è importante perché il sistema carcerario ha il ruolo di prevenire i crimini e rieducare chi li ha commessi, quindi se fosse un luogo pericoloso o mal organizzato lo stato rischierebbe non solo di dimostrarsi inadeguato a garantire la sicurezza e la salute di chi ha in custodia, ma anche di offrire una forte leva propagandistica alla criminalità organizzata. Alla domanda su come la pandemia sia ricaduta sulle carceri, però, è difficile rispondere. Per provare a farlo abbiamo raccolto dati e li abbiamo verificati con alcuni osservatori ed esperti del sistema penitenziario italiano, e questo che segue è il risultato. 

Quanti sono i detenuti?

Stando agli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia le persone in carcere in al momento, sono 54132, ridotte di quasi settecento unità nello scorso mese. Il numero è superiore a quello dei posti totali disponibili, che è di 50568, quindi ci sono circa 3600 detenuti in eccesso. Per questo motivo si parla di sovraffollamento delle carceri, un problema esistente già prima dell’inizio della recente pandemia da Covid-19 ma che quest’ultima ha evidenziato con più forza: i luoghi sovraffollati, infatti, abbiamo imparato essere particolarmente esposti al contagio da nuovo coronavirus.

Nelle carceri non c’è un numero fisso di detenuti, il flusso è continuo sia in entrata che in uscita, e questo ha due effetti: rende il conteggio dei presenti variabile e allo stesso tempo espone chi si trova all’interno al contagio da parte dei nuovi giunti. Nelle strutture penitenziarie naturalmente non ci sono solo carcerati, ma anche lavoratori come dipendenti della sicurezza, della polizia penitenziaria e altre figure che, di fatto, entrano ed escono dal carcere quotidianamente. Questo aumenta il rischio e rende particolarmente difficile il tracciamento.

Per arginare il pericolo di nuovi focolai nelle carceri, con il decreto del 9 marzo il governo ha deciso di sospendere le visite dei parenti dei carcerati proprio con l’obiettivo di limitare la diffusione del virus. Meno persone vanno e vengono dai penitenziari meno sono le possibilità che il virus entri negli istituti, ma a farne le spese in questo modo è la socialità dei detenuti, e quindi il loro benessere psicologico e fisico. Proprio a seguito della decisione del governo lo scorso marzo, durante la prima ondata di contagi, in alcune carceri italiane ci sono state violente proteste che hanno portato alla morte di 13 detenuti.

Sempre per prevenire il contagio nelle carceri si sono prese delle altre precauzioni: i nuovi detenuti vengono isolati fino al doppio tampone negativo e solo a quel punto trasferiti in cella con gli altri. Nel caso di positività scatterebbe l’isolamento e il tampone di chiunque sia venuto a contatto col positivo, ma questo, riferisce una fonte a Wired, avviene solo in teoria, sia perché il tracciamento è particolarmente difficile senza app né libertà di comunicare tra detenuti, sia per semplice scarsità di tamponi.

Nonostante i nuovi carcerati stiano in isolamento preventivo, il pericolo che le carceri siano un luogo di contagio rimane. Il problema riguarda soprattutto gli spazi e il distanziamento: le attività sociali come lo sport e il lavoro, essenziali per il benessere psico-fisico dei detenuti come per il loro successivo reinserimento in società, sono a rischio. Stando a quanto ha riferito Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria “Sappe”, a novembre nel Reparto G8 del carcere di Rebibbia molti detenuti “si sono rifiutati di rientrare dal cortile passeggio per problemi legati alla positività al Covid 19 di due loro compagni e al conseguente isolamento sanitario cautelativo di altri che erano stati a diretto contatto”. Nello stesso carcere romano per riuscire a isolare i positivi si è optato per gli spazi della lavanderia, ma la conseguenza, come denuncia la madre di un detenuto, è “che non cambiano più le lenzuola da tre settimane perché non possono più lavarle“.

In carcere, insomma, vigono le stesse regole di cautela che valgono all’esterno: distanziamento sociale e isolamento, solo che le celle sovraffollate rendono difficilmente praticabili entrambi. Come ha scritto Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza al Tribunale di Sassari e Presidente di Magistratura democratica “la creazione di ‘zone filtro’ di isolamento – per i nuovi ingressi, per i casi sospetti, per i positivi sintomatici e per quelli asintomatici – è inattuabile […] a meno di non voler paralizzare la prigione e interrompere anche le attività essenziali”.

Nemmeno i regimi di carcere duro, dove il detenuto è fisicamente separato dagli altri, si sono dimostrati una sicurezza per i possibili contagi. Si sono registrati contagi da Covid-19 anche tra i detenuti in isolamento: i carcerati in regime di 41bis presenti nella struttura carceraria di Tolmezzo, per esempio, sono risultati tutti positivi.

Quanti sono i contagiati?

I positivi in carcere, al momento, sono 1049 e si trovano in 86 diversi istituti penitenziari. Tra questi in 90 presentano sintomi da Covid-19 (erano 65 a fine novembre) e in 41 sono in condizioni più serie che hanno reso necessario il trattamento ospedaliero (erano 27 a fine novembre). Questi numeri vengono dal ministero della Giustizia e sul sito del Garante nazionale dei detenuti vengono riportati e interpretati in un report periodico.

La situazione dei contagi sembra essere molto mutevole. Ci sono carceri in cui i contagiati diminuiscono, altri in cui, rapidamente, si sviluppano nuovi focolai. Sappiamo dal Garante dei detenuti che nelle scorse settimane a Napoli-Poggioreale erano stati registrati circa un centinaio di casi, e circa settanta a Terni, numeri che oggi si sono ridotti, “ma, parallelamente, si sono sviluppati nuovi focolai a Trieste, Monza, Sulmona, Bologna e nei giorni precedenti a Tolmezzo”.

I numeri dei contagi, però, vanno considerati come parziali e provvisori, come del resto lo sono quelli che inquadrano la situazione fuori dal carcere. Sono provvisori perché la situazione dei contagi cambia rapidamente e un focolaio, come sappiamo, può estendersi a velocità esponenziale. In questo senso i numeri appena citati – risalendo all’ultimo dei report stilati dal Garante dello scorso 9 dicembre – potrebbero essere cambiati completamente nel giro di una sola settimana. Mentre sono parziali perché a risultare positive sono per forza di cose solamente le persone testate, che non sono tutte quelle presenti nelle carceri italiane. Questo avviene per la carenza di tamponi, che soprattutto nella fase iniziale della pandemia erano numericamente carenti in quasi tutte le regioni, e quindi anche nei rispettivi istituti penitenziari.

Il problema dei numeri dei contagi, però, è che sono parziali anche perché nel riportarli ci si limita a quelli dei detenuti. In carcere però ci sono anche insegnanti, educatori, poliziotti penitenziari, volontari e molte altre figure che hanno riscontrato contagi. I numeri, quindi, andrebbero considerati rispetto alla popolazione carceraria e sommati a quelli di chiunque lavora nelle strutture, e in questo modo sarebbero decisamente diversi. L’esempio del medico del carcere di Secondigliano Raffaele Di Iasio, morto di Covid-19 lo scorso novembre, dimostra che il virus presente nelle carceri italiane non mette a repentaglio soltanto i detenuti. Ed è qui che alcuni problemi strutturali delle carceri italiane riemergono spinti dalla crisi sanitaria: il sovraffollamento rende più probabili i contagi e più difficile l’isolamento e il tracciamento. Ma anche la carenza di personale oggi è più problematica che in passato. Nel solo carcere di Bologna, dice a Wired Italia Elia de Caro, avvocato e difensore civico dell’associazione Antigone, ci sono oltre 700 detenuti su 500 posti di capienza massima (a inizio del 2020 hanno raggiunto quasi le 900 unità), con soltanto 8 educatori, 2 funzionari contabili e 2 appartenenti al personale. Nella stessa struttura si è avuto un morto per Covid e almeno 15 sanitari risultati positivi.

Ecco perché anche se la situazione, considerando i numeri, non è “allarmante dal punto di vista strettamente medico”, come afferma il Garante dei detenuti, “è invece da guardare con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi (…) sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio”.

Il dibattito sulle possibili soluzioni

I sindacati di polizia penitenziaria, come anche il Garante dei detenuti e le associazioni che si occupano di carcere, credono che la soluzione sia quella di ridurre il sovraffollamento. Riccardo de Vito riassume questa posizione affermando che bisognerebbe “da un lato sospendere l’ordine di carcerazione nei confronti dei condannati a pena inferiore a quattro anni” dall’altro invece intervenire con la “liberazione anticipata speciale, portando da 45 a 75 giorni a semestre i giorni di riduzione della pena”.

Questo, però, non è l’unico approccio al problema del sovraffollamento, e quindi della prevenzione di nuovi focolai. Nel dibattito pubblico e politico esistono due approcci opposti: da una parte, come abbiamo appena visto, quello di diminuire il numero dei carcerati, dall’altro quello di costruire nuove carceri.

Un recente scambio di opinioni interno al Fatto quotidiano, con da una parte l’editorialista Gad Lerner dall’altra il direttore Marco Travaglio, è utile per riassumere le due posizioni. Secondo Travaglio “contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta”, di conseguenza “le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del paese”. Secondo Lerner invece bisognerebbe “studiare misure alternative alla detenzione, e infine denunciare il sovraffollamento delle carceri per quello che è: una realtà incivile e criminogena”. La differenza tra l’opinione dei due giornalisti è squisitamente politica: da una parte si dà la priorità alla certezza della pena, e si rifiuta l’idea di amnistie e sconti di pena. Dall’altra la priorità è invece il diritto alla salute e al benessere dei carcerati che, va sottolineato, riguarda da vicino anche chi carcerato non lo è, visto che i focolai in carcere rischiano di coinvolgere medici, membri della polizia penitenziaria, educatori, volontari e altre persone che lavorano a contatto con i detenuti. Ancora più a monte è vero anche che, visto il continuo flusso in uscita dalle carceri, una situazione fuori controllo all’interno avrebbe conseguenze anche all’esterno.

Cosa accadrà adesso?

Non è facile ipotizzare quale dei due approcci abbia, oggi, più possibilità di prevalere, sappiamo però che, anche se entrambi trovano rappresentanza all’interno del governo, il ministro della Giustizia in carica, Alfonso Bonafede del Movimento 5 stelle, pare essere più vicino alla posizione di Travaglio che a quella di Lerner.

Il problema delle carceri, in ogni caso, non sembra essere soltanto quello del sovraffollamento, ma più in generale sembrano strutturalmente poco adeguate a un periodo pandemico. Le carceri, infatti, rientrano nella categoria delle cosiddette istituzioni totali, come le Rsa e i Centri per l’immigrazione, tutte strutture messe in crisi dalle infezioni da Covid-19.

Al momento, comunque la si pensi sulle possibili soluzioni, il rischio è che situazioni come quella di Angelo Esposito, cardiopatico e asmatico, recluso dal 10 gennaio scorso in una cella insieme ad altre 14 persone in uno spazio di circa 20 metri quadrati con un solo bagno e una sola finestra, rimangano inaffrontate.

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[Fonte Wired.it]