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mercoledì, Set 04

Come una compagnia aerea è finita al centro delle proteste di Hong Kong


Cathay Pacific, prestigiosa compagna di bandiera della città asiatica, è stata terreno di uno scontro politico interno che si è concluso male per l’ex ceo e per chi, tra il personale, manifestava contro Pechino

A margine degli scontri che si stanno svolgendo in queste settimane a Hong Kong tra i cittadini e le autorità cinesi, c’è un riflesso aziendale che passa attraverso la normalizzazione delle grandi aziende, all’interno delle quali potrebbe annidarsi il dissenso. La più grande a essere diventata oggetto di questo fenomeno sino a questo momento, è anche uno dei simboli nel mondo della città asiatica: la compagnia aerea Cathay Pacific.

Boeing 747 Cathay Pacific (Fonte Pixabay)
Boeing 747 di Cathay Pacific (Pixabay)

A partire dalla metà di agosto numerosi dipendenti della società hanno partecipato alle proteste, sia in forma del tutto privata in città che a margine delle attività lavorative durante le marce e le proteste che si sono tenute all’aeroporto di Hong Kong, Chek Lap Kok sull’isola di Lantau. L’azienda all’inizio aveva dimostrato una decisa vicinanza con le proteste: non appoggiandole in modo esplicito, ma bensì rifiutandosi di reprimerle internamente punendo i dipendenti che partecipavano o che dimostravano inclinazioni sovversive, come più volte richieste dalle autorità cinesi (Pechino, tra l’altro, è anche azionista di Cathay Pacific tramite Air China).

Invece, Cathay resisteva: come aveva dichiarato il chairman dell’azienda, John Slosar, “abbiamo 27mila dipendenti a Hong Kong con moltissimi ruoli diversi. Non ci sogniamo neanche di dirgli cosa devono pensare a proposito di questo o di quell’argomento”.

Ma è stata una resistenza durata poco. Quando Pechino ha iniziato a fare pressione sul gruppo britannico Swire, che controlla il 45% dell’azienda, le cose sono cambiate rapidamente. Prima è stato sospeso un pilota che era stato arrestato durante le proteste, e poi sono cominciate sospensioni e licenziamenti che hanno toccato anche i rappresentanti sindacali dell’azienda. Alla fine, è saltata la testa del numero uno, il ceo Rupert Hogg, l’uomo che ha riportato a tempo record i conti di Cathay in pari facendola uscire due anni fa da una pericolosa crisi. Assieme a lui se n’è andato anche il suo luogotenente, Paul Loo, responsabile dei rapporti con la clientela. La ragione ufficiale sono state le “intense critiche” del governo di Pechino all’operato del manager e, dicono alcune fonti, la minaccia di sospendere le licenze di sorvolo sopra il territorio della Repubblica popolare cinese, cioè di fatto tagliare tutti i voli verso l’Europa. Un braccio di ferro, insomma.

Cathay, un’icona di Hong Kong, non è solo la compagnia di bandiera della città asiatica. Fondata nel 1947 da un australiano e un americano, oggi proprietà del gruppo Swire ma partecipata anche da Air China (con un gioco di quote incrociate) e da Qatar Airways, Cathay Pacific è stata a lungo il vettore che apriva l’esotica porta dell’Estremo Oriente all’Europa. E infatti buona parte del traffico di lungo raggio (più di 190 destinazioni in 60 paesi) è ancora diretta verso il Vecchio continente.

Il nuovo ceo si chiama Augustus Tang: promosso sull’orlo della pensione (si sarebbe ritirato tra un paio di settimane) Tang è un uomo d’ordine con una ottima carriera all’interno del gruppo (era a capo della filiale che si occupa della manutenzione dei velivoli) e fortissimi rapporti con Pechino. È dunque un nuovo ceo cinese per Cathay, riprendendo una tradizione interrotta proprio da Hogg. Sotto la guida di Tang, Cathay Pacific ha spedito mail rassicuranti a tutti i clienti abituali in cui si ribadiva la dedizione dell’azienda alla sua missione di vettore asiatico di primaria importanza, e non si faceva ovviamente nessun riferimento alle proteste o agli scontri di Hong Kong, o all’occupazione dell’aeroporto da parte dei manifestanti.

Intanto però, i licenziamenti continuano e Cathay Pacific, che come si diceva è stata a lungo il simbolo non solo della città ma anche di un ponte tra l’identità asiatica e cinese di Hong Kong e quella occidentale, adesso è decisamente diventata, per esigenze di business, più realista del re: ha sposato posizioni filo-Pechino che dovrebbero, secondo la proprietà, farle superare il momento di crisi. A costo però di una profonda normalizzazione politica, ça va sans dire.

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