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mercoledì, Set 09

Como: l’assessora che getta via le coperte dei senza dimora è lo specchio di una città nel baratro



Da Wired.it :

Tra politiche razziste e guerra ai poveri, la città lacustre si è trasformata in un contenitore capace di racchiudere tutte le dinamiche tossiche del paese

Si è avvicinata a un senza fissa dimora che stava dormendo, gli ha strappato la coperta e l’ha gettata via. Poi ha fatto lo stesso con altre delle persone accampate sotto i portici di San Francesco, spazio a ridosso della città murata dove è solito sistemarsi chi una casa non ce l’ha. L’autrice del vergognoso gesto non è una cittadina comune, ma l’assessora alle politiche sociali del comune di Como Angela Corengia, nelle file del centrodestra. La vicenda ha fatto il giro del paese, anche grazie a un video che immortala il momento, mentre dall’opposizione locale si è alzata una condanna unanime. Il problema, però, è che si tratta dell’ennesimo episodio buio in una città che va perdendo sempre più la sua dignità.

Sono nato e cresciuto a Como, piccolo centro borghese al confine con la Svizzera. Una città sempre ai primi posti in quanto a qualità della vita, ma che come spesso accade in questi casi si rivela poi un luogo morto, a misura di turista più che di abitante, o semmai perfetta per il suo residente medio alto-borghese e di mezza età che non per il resto della cittadinanza, quella più giovane per esempio. Como è stata condannata dalla sua stessa bellezza a non fare nulla per offrirsi al paese come luogo di dinamismo socio-culturale, sulle copertine delle riviste di viaggi ci finisce comunque. Negli ultimi anni, dopo la presa del potere in città della giunta di centrodestra guidata dal sindaco Mario Landriscina, queste dinamiche sono però state portate alle estreme conseguenze e la turistificazione si è legata a doppio filo agli imperativi dell’ordine pubblico, del decoro e della lotta selvaggia a un degrado più immaginario che reale. È così che proprio in questo piccolo centro di 80mila abitanti si è iniziato a sperimentare politicamente quello che poi avremmo visto su scala nazionale.

Como è una delle prime città ad aver vissuto nelle sue vie del centro l’emergenza migratoria. Nel 2016, con la chiusura della frontiera svizzera, in migliaia di richiedenti asilo sono rimasti bloccati al confine, finendo prima per accamparsi nel parco della stazione, poi in un apposito centro di accoglienza in una zona periferica. Proprio a quei tempi iniziava la campagna elettorale per le elezioni comunali dell’anno successivo e slogan come “prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro”, che iniziavano a fare la comparsa a livello nazionale, si sono imposti in modo molto più forte  e maturo nel dibattito comasco. Era solo un antipasto di quello che sarebbe successo negli anni successivi, anni caratterizzati da un conservatorismo politico dove populismo e fascismo velato si sono tradotti in un’azione costante a base di guerra ai poveri, militarizzazione e violazione dei diritti della cittadinanza.

Como è stata forse la città che prima di tutte ha dato un volto ai decreti sicurezza di Marco Minniti, quelli che chiedevano “l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale” e che nel caso del piccolo capoluogo lombardo si sono concretizzati a partire dal 2017 nelle ordinanze con cui il sindaco-sceriffo ha vietato l’elemosina e l’occupazione del suolo da parte di mendicanti nel centro storico (ma solo durante le affollate vacanze natalizie), ha ordinato il taglio degli alberi e l’eliminazione delle panchine nei pressi del centro di accoglienza, ha fatto staccare l’acqua dal parcheggio coperto abbandonato in periferia dove alcuni senza dimora erano soliti accamparsi con il freddo e oggi discute dell’installazione di apposite grate anti-accampamento sotto i portici di San Francesco – il tutto mentre la stessa giunta comunale da ormai un anno fa muro alla realizzazione di un nuovo dormitorio. 

Sempre Como ha mostrato prima di tutti al paese come la violenza, il fascismo, possano essere ridotti a “goliardata”, roba di cui non preoccuparsi insomma – un modo con cui nel tempo si è finito per legittimare tutto questo. È successo per esempio nel novembre del 2017, quando il gruppo Veneto fronte skinhead ha fatto irruzione nella sede di Como senza frontiere, associazione che si occupa di accoglienza, per leggere un comunicato razzista e intimidatorio. Venne organizzato per i giorni successivi un corteo di condanna bipartisan, a cui il sindaco non partecipò. La vice-sindaca leghista Alessandra Locatelli disse invece che “sono quattro ragazzi, il problema è l’immigrazione”. Che nel 2019 sia stata nominata ministra della famiglia nel governo giallo-verde, dev’essere stato il premio per aver anticipato i temi della politica nazionale.

Ma Como è stata anche la città che subito si è messa in fila perché le sue forze di polizia venissero selezionate a livello nazionale per la sperimentazione del taser, cosa poi avvenuta nel 2019. Una sete di ordine e securizzazione in una città dove la criminalità è quasi inesistente, ma che anno dopo anno continua a rinfoltire la sua squadra di militari presenti in città con l’operazione Strade sicure – peraltro diventati un comitato di accoglienza davanti alla stazione, per chi dovesse arrivare in treno. Gli slogan dell’amministrazione a proposito di degrado, invasione e insicurezza hanno creato in città un’emergenza che non c’è, a cui però si è risposto con una militarizzazione inutile, se non per fini di propaganda. Una dinamica che nel tempo abbiamo rivisto a livello nazionale, con i crimini che in costante calo, gli stranieri che continuano a rappresentare una quota della popolazione intorno all’8%  ma una narrazione da parte di certa politica che ha proiettato la popolazione in un mondo che esiste solo nei comizi elettorali, ma che si crede reale.

Negli ultimi tempi poi Como, anzi la sua amministrazione, ha voluto fare di più, facendosi laboratorio di quello che è uno dei temi più caldi del nostro presente ma soprattutto del futuro: la sorveglianza di massa. Sono state spese centinaia di migliaia di euro per un’iniziativa tutta in mano a privati, basata sull’installazione di telecamere a riconoscimento facciale in zone strategiche della città per rispondere ai “problemi di degrado ed una diffusa sensazione di insicurezza nei cittadini”. Le telecamere sono rimaste accese per diversi mesi, nonostante mancassero le basi legali per farlo, fino a che non è intervenuto il Garante della privacy per farle spegnere e la vicenda è finita in parlamento. In ogni caso, Como si contraddistingue oggi come città d’avanguardia nello studio e l’utilizzo di tecnologie invasive in chiave securitaria, un tema che presto entrerà in modo più evidente nelle vite degli italiani.

Tra politiche razziste, militarizzazione massiva, guerra ai poveri e normalizzazione degli estremismi, Como da qualche anno si è trasformata in un piccolo contenitore capace di racchiudere tutte le dinamiche tossiche del paese. Se a livello nazionale fa capolino qualcosa di grosso nell’ambito di questi macro-temi, è molto probabile che sia già stato sperimentato nel piccolo centro lacustre al confine con la Svizzera. Ecco perché l’azione dell’assessora Corengia, che ha gettato via le coperte ai senza dimora, non stupisce. Si tratta di un episodio perfettamente coerente con la storia recente dell’amministrazione, ma è anche un campanello d’allarme del baratro di disumanità in cui sta sprofondando sempre più la città, quindi il paese. Ancora una volta, da Como arriva allora un avvertimento sui tempi duri che ci aspettano, ma anche sulla necessità di reagire per rimettere la solidarietà, l’accoglienza, la dignità umana al centro del villaggio.

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[Fonte Wired.it]