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giovedì, Set 30

COP26: serve puntare di più su salute e nuove tecnologie



Da Wired.it :

Il prossimo numero di Wired magazine è dedicato all’emergenza climatica. Qui un contributo extra del comunicatore scientifico e organizzatore di Fridays for Future Jacopo Mengarelli

(LIONEL BONAVENTURE/AFP via Getty Images)

Dal primo al dodici di novembre, a Glasgow, si terrà la tanto attesa COP26. Tutti i paesi del mondo si riuniranno nuovamente, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per aggiornare al rialzo i loro obiettivi di azzeramento delle emissioni di gas serra. Si tratta quindi del primo momento veramente fondamentale dalla firma dello storico Accordo di Parigi, in cui le nazioni si impegnavano a non superare i 2°C – se non 1,5°C – di aumento della temperatura globale media per fine secolo. In queste settimane, si sono aperti anche i negoziati preliminari a Milano, la Youth4Climate: Driving Ambition dal 28 al 30 settembre e la pre-COP26 dal 30 settembre al 2 ottobre.

Ritardo di un anno: non è una notizia così brutta

La COP26 è stata rimandata al 2021 causa Covid-19. Ma dopo un anno di eventi online, gli organi delle Nazioni Unite non avrebbero potuto organizzarla da remoto? Per la verità no, e la ragione è intuitiva, ma non banale. I negoziati climatici, infatti, non sono costituiti dalle sole riunioni in plenaria, dove oltre ai delegati nazionali sono ammessi vari osservatori e organi d’informazione. Esistono infatti altre tipologie di sessione, tra cui le sessioni informali e le cosiddette sessioni informali-informali.

Queste sessioni servono a sciogliere i nodi più difficili, grazie a incontri tra pochi delegati, riservati e spesso nemmeno calendarizzati. È evidente come sarebbe piuttosto complicato tenere a distanza questi incontri, che hanno bisogno per definizione di intimità. Infatti, durante i negoziati intermedi di giugno, che si sono svolti online, la mancanza di momenti informali ha contribuito a rallentare i lavori; per esempio senza raggiungere una quadra sulle importanti scadenze temporali comuni per gli NDC, che sono gli obiettivi climatici che i paesi devono presentare al rialzo alla COP26.

C’è da dire che il posticipo di un anno potrebbe però anche non essere considerato una grave perdita di tempo. Ecco perché. Durante la pandemia, le emissioni di gas serra sono diminuite considerevolmente, tra il 6 e il 9 per cento circa, a seconda delle stime. Visto che le emissioni di gas serra andrebbero ridotte del 7,6 per cento ogni anno per arrivare allo zero netto nel 2050, potremmo dire di aver compensato l’anno di posticipo della COP26 con questo calo, seppur eccezionale, di emissioni.

Ma, oltre a questo, l’evento che probabilmente ha riacceso la speranza nell’ambizione climatica è stata l’elezione di Joe Biden nell’autunno del 2020. Rientrato immediatamente nell’Accordo di Parigi, da cui si era sfilato il predecessore Donald Trump, ha iniziato ad avviare piuttosto seriamente politiche climatiche che potrebbero aver avuto effetti a cascata nel resto mondo; dagli annunci della Cina agli impegni dell’Europa, ma anche del Giappone, del Canada o del Regno Unito.  Impegni che si sono anche ripresentati in importanti consessi internazionali, come il G20 svoltosi in Italia. È infatti essenziale che i paesi del G20 si allineino prima delle COP, dal momento che sono responsabili dell’80 per cento delle emissioni e di una percentuale analoga di PIL mondiale.

Infine, a disposizione dei negoziati, ci sarà anche la prima parte del sesto rapporto dell’IPCC (il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici) sulle basi fisiche del riscaldamento globale, uscito il 9 agosto scorso. Il documento, in estrema sintesi, conferma le cause umane del riscaldamento e, con particolare attenzione alle realtà locali, indica i possibili scenari di riduzione delle emissioni con un messaggio di base chiaro e inequivocabile: il tempo è ormai veramente molto poco.

inquinamento tossico
La mappa dei paesi più a rischio di cambiamenti climatici (foto: Marcantonio et al, 2021, PLOS ONE (CC-BY 4.0, creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

Bisogna puntare di più sui “co-benefici” per clima e salute

Tra i temi di cui si parla poco, sia alle COP che negli NDC dei singoli paesi, c’è purtroppo il tema dei cosiddetti “co-benefici” per clima e salute. Per capire di cosa si tratta e perché sono importanti ci siamo fatti aiutare da Paolo Vineis, epidemiologo ambientale all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità.

“Con il Grantham Institute dell’Imperial College e il Consiglio Superiore di Sanità, due anni fa abbiamo scritto un documento per il sito del Ministero della Salute italiano, sulla prevenzione delle malattie croniche e cambiamento climatico”, spiega Vineis riferendo che attualmente sta collaborando alla realizzazione di alcune iniziative per la COP26 e la pre-COP incentrate su “quelli che noi chiamiamo co-benefici“. Se ne parla poco, come in generale si parla molto poco di salute quando l’argomento è il cambiamento climatico. Difatti lo stesso Vineis racconta di aver avuto “una certa difficoltà a far dialogare il Ministero della salute con il Ministero della transizione ecologica”.

La questione centrale dei co-benefici è “affrontare congiuntamente la prevenzione delle malattie croniche e il cambiamento climatico”, in quanto “più vantaggioso che puntare solo sul cambiamento climatico, a parità di investimento”. Si possono individuare quattro ambiti di particolare interesse: i trasporti, l’alimentazione, l’energia e l’agricoltura. “Dall’ultimo rapporto IPCC”, dice Vineis “emerge una maggiore preoccupazione legata al metano, gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, emesso notoriamente dagli allevamenti degli animali”, ecco quindi che “la riduzione del consumo di carne ha un beneficio per la salute, ma contribuisce in modo importante alla mitigazione del cambiamento climatico”.

Si possono individuare doppi benefici anche con la «coibentazione delle case, e in generale con il trasporto attivo: quindi l’uso della bicicletta, dei piedi, del trasporto pubblico e così via». Come ci ha fatto notare Vineis, «esistono delle stime fatte da ricercatori inglesi per cui ci sarebbe un notevole guadagno, anche in termini di riduzione di gas serra, se le strategie di mitigazione si basassero anche sulla salute». Per esempio, un recente studio del 2021 uscito su The Lancet Planetary Health evidenzia come le popolazioni più sane saranno più resistenti alle future minacce per la salute causate dal cambiamento climatico, con un impatto positivo anche sull’economia; e analoghi effetti positivi, inoltre, si avrebbero anche riducendo le disuguaglianze sanitarie tra privilegiati e più vulnerabili.

Purtroppo, negli NDC nazionali, si parla con difficoltà di misure di questo tipo, e quando sono affrontate, per esempio per quanto riguarda i trasporti o l’alimentazione, “non vengono riferite al concetto dei co-benefici”. Questo è un peccato, perché, sottolinea Vineis, “le persone percepiscono più facilmente i benefici della salute piuttosto che quelli del cambiamento climatico, che sono invece percepiti come lontani nel tempo e nello spazio“. Nonostante questo, ci sono delle buone pratiche in Europa da cui si può trarre insegnamento.

“Per il settore dei trasporti la città di Manchester fa cose molto buone”, come “l’incentivazione dell’uso dei trasporti pubblici e delle biciclette, presentandoli alla popolazione come iniziative volte alla mitigazione del cambiamento climatico ma anche al miglioramento dello stato di salute“, riferisce Vineis. “Ovviamente ci sono anche investimenti dal punto di vista strutturale”. Ben noto ormai “è il progetto della rete delle città C40: molte cose si stanno facendo a Londra, Parigi, Barcellona, sempre nell’ambito dei trasporti”. Nell’ambito dell’alimentazione, “l’unica esperienza che io conosco, ma probabilmente ce ne sono altre, è quella di Milano dove la giunta comunale ha avviato un’iniziativa rivolta soprattutto alle mense scolastiche per ridurre i consumi che hanno un impatto a livello ambientale e promuovere quelli più benefici sia per la salute che per l’ambiente”.

Photo by Markus Spiske on Unsplash

Per decarbonizzare serve creare, trasferire e finanziare tecnologia

Come si può immaginare, parte delle misure che producono benefici al clima e alla salute hanno bisogno di tecnologia all’altezza. Si pensi al settore dell’energia, responsabile di gran parte delle emissioni di gas serra, così come quello dei trasporti. Il recente rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia sugli scenari energetici al 2050 parla chiaro: per il 2030 disponiamo già della tecnologia per ridurre le emissioni, ma la decarbonizzazione al 2050 è basata per il 50 per cento su tecnologie oggi esistenti solo a livello di prototipo. Risulterà quindi di fondamentale importanza che tutta la ricerca tecnologica dia risposte in termini di efficacia e sicurezza, soprattutto in quei settori dove ancora c’è una certa incertezza. Pensiamo all’idrogeno, alla cattura e stoccaggio di carbonio, ai vari biocombustibili e all’energia nucleare a fissione e a fusione.

Per comprendere meglio questi concetti, è utile qui porre l’accento sui settori cosiddetti hard to abate, cioè quelli che incontrano difficoltà maggiori a ridurre la loro impronta carbonica. Questo avviene per gli elevati costi economici, ma anche per carenze tecnologiche. Una delle principali debolezze delle energie rinnovabili è infatti l’intermittenza. Un pannello fotovoltaico, senza radiazione solare, non produce energia. E questo, può essere un problema nel settore hard to abate – sostanzialmente industria e trasporto pesanti – che ha bisogno di molta potenza, cioè di molta energia nell’unità di tempo, e in modo continuativo. Come fare quindi?

Se non si vogliono usare i combustibili fossili, serve bruciare un altro tipo di combustibili per generare energia, che producano meno gas serra di carbone, petrolio e gas. Una prima scelta possono essere i biocombustibili, che a parità di energia prodotta emettono molta meno anidride carbonica dei fossili. Il problema è che hanno bisogno di molto più terreno a disposizione, con impatti sulla biodiversità non trascurabili. Oppure si può catturare e immagazzinare l’anidride carbonica emessa durante la combustione, ma in questo caso non si hanno sufficienti evidenze sull’efficacia e sulla sicurezza di eventuali giacimenti. Si potrebbe usare allora l’idrogeno, la cui combustione non produce biossido di carbonio. Ma per ottenere idrogeno serve energia, per cui, per usare quella rinnovabile, è necessario aspettare di produrne così tanta da avere un surplus disponibile a estrarre idrogeno; che in questo caso prenderebbe il nome di “idrogeno verde”. Nel frattempo, per avere idrogeno oggi, si dovrebbe ottimizzare l’uso delle varie fonti energetiche oggi disponibili già citate, compreso il nucleare. Anche in questo caso, sebbene il nucleare a fissione sia molto più sicuro oggi che ai tempi di Chernobyl, resta comunque il problema di depositi sicuri per le scorie radioattive.

Ognuno dei punti sopracitati dovrebbe essere approfondito, ma è evidente quanto ciascuno di essi abbia bisogni di benefici dal punto di vista tecnologico. Serve infatti rendere la produzione di biocombustibili più efficiente, serve capire in che modo riutilizzare l’anidride carbonica per non immagazzinarla (per esempio per produrre combustibili sintetici) e serve accelerare la ricerca su un nucleare a fissione più sicuro e, sul lungo periodo, sulla possibilità di usare il ben più pulito nucleare a fusione.

Per tutti questi motivi, ormai da vari anni il tema tecnologico fa parte dei negoziati climatici mondiali, con l’istituzione del Tecnology Mechanism nel 2010, che aiuta gli aderenti all’Accordo di Parigi a determinare le priorità nazionali in ambito tecnologico, con particolare riguardo ai paesi poveri. Degno di nota è il fatto che quasi tutti i paesi meno sviluppati, per l’appunto, secondo le rilevazioni del Segretariato ONU per il clima, hanno menzionato il bisogno di tecnologia nei loro obiettivi nazionali di decarbonizzazione.

Su questo si inseriscono le recenti raccomandazioni per la COP26 ai governi da parte degli organi che compongono il Technology Mechanism. Si legge nel documento che i governi dovrebbero rafforzare i quadri legali e normativi per facilitare lo sviluppo e il trasferimento tecnologico. Ma devono aumentare anche la cooperazione internazionale, e in particolare i finanziamenti e gli investimenti internazionali indirizzati ai paesi in via di sviluppo, che il più delle volte sono i maggiormente colpiti dalla crisi climatica. E questo sarà possibile anche attraverso una grande semplificazione burocratica per accedere agli strumenti finanziari.

È interessante segnalare, infine, che dalla fine di luglio sono state selezionate alcune startup dal programma Tech For Our Planet, visibili nel sito della COP26, organizzato dal governo britannico in partnership con PUBLIC, un ente inglese per lo sviluppo tecnologico del settore pubblico. Tra i progetti selezionati si trovano obiettivi di riduzione dello spreco energetico domestico, con la startup measurable.energy, o di tecniche di ottimizzazione del suolo agricolo, con Hummingbird Technologies, o anche, con AgriSound, di raccolta dati sulla biodiversità degli insetti. Obiettivi, questi e quelli delle altre startup, che mettono insieme tanto la logica dei “co-benefici”, quanto il settore energetico, alimentare e della biodiversità.

Cittadinanza scientifica per il futuro post COP26

Resta ormai molto poco tempo per riuscire a restare sotto l’aumento di 1,5°C per fine secolo, che probabilmente raggiungeremo prima, se non ci saranno significativi cambi di rotta nelle politiche nazionali. La questione importante, da tenere presente per capire al meglio i negoziati, è che l’ambizione climatica si costruisce “in patria” e i paesi raramente modificano la loro posizione durante i negoziati, che servono invece a negoziare, appunto, decisioni e accordi tendendo conto dei vari interessi in campo. Ecco quindi che i negoziati sul clima affondano le radici in ogni singolo paese, nella politica e nei cittadini, molto prima della data effettiva di svolgimento delle COP. Se la politica e i cittadini non percepiscono il problema come centrale per la propria sopravvivenza, difficilmente i delegati che partecipano alle COP saranno motivati a innalzare l’ambizione climatica. Per questo motivo, dopo la COP sarà sempre più importante il ruolo della comunicazione e dell’informazione nel sensibilizzare i cittadini.

Come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015, ogni cinque anni i paesi sono tenuti ad aggiornare i loro contribuiti climatici nazionali al rialzo: alla COP26, questo avverrà per la prima volta e sarà quindi il primo banco di prova di quanto nel tempo è maturata la consapevolezza climatica, come dicevamo all’inizio. Dobbiamo auspicare quindi che al prossimo aggiornamento, fra altri cinque anni, non si segua quanto accaduto dallo storico incontro a Parigi a oggi, e cioè un aumento ulteriore delle emissioni. Le conseguenze della crisi climatica sono sempre più visibili: non possiamo permetterci più di farci trovare impreparati.





[Fonte Wired.it]