Negli ultimi anni si è affermato un fenomeno controverso: l’uso strategico delle violazioni del copyright come strumento di pressione economica e psicologica. Un caso emblematico riguarda il settore della pornografia online, dove alcune società hanno trasformato la minaccia di imbarazzo pubblico in un modello di business redditizio, sfruttando la vergogna degli utenti per estorcere pagamenti. Società come Strike 3 Holdings – proprietaria di siti come Blacked, Vixen, Tushy e Deeper – hanno perfezionato la pratica del copyright trolling: acquistano i diritti su contenuti protetti non per distribuirli, ma per citare in giudizio chi li scarica illegalmente, spesso tramite piattaforme peer-to-peer come BitTorrent. L’obiettivo è ottenere risarcimenti economici extra-giudiziari in cambio della riservatezza, sfruttando la paura di un’esposizione pubblica.
Nel 2024 il fenomeno ha raggiunto un picco negli Stati Uniti, con oltre quattromila cause, pari a più della metà di tutti i procedimenti sul diritto d’autore nei tribunali americani. Anche in Europa il fenomeno è presente, sebbene con una diffusione più limitata. Negli ultimi anni, le autorità europee hanno reagito introducendo nuove regolamentazioni sulla distribuzione di contenuti online, soprattutto nei portali per adulti, con l’obiettivo di prevenire abusi simili a quelli statunitensi e tutelare gli utenti, specie i minori. Tuttavia, queste misure sollevano nuove sfide, in particolare per quanto riguarda la privacy e la sicurezza legale degli utenti.
Come funziona il ricatto legale
Secondo gli esperti legali, un copyright troll è un individuo o un’organizzazione che sfrutta i diritti d’autore per trarre profitto attraverso cause legali, senza creare o commercializzare contenuti propri. Questa pratica è fortemente criticata perché devia dalla funzione originaria del diritto d’autore: invece di incentivare nuove opere creative, mira a ottenere risarcimenti sfruttando le leggi sul copyright, che prevedono multe altissime. Il termine, comparso nei primi anni Duemila, deriva da “patent troll”, con cui si definiscono aziende in modo simile che acquistano brevetti soltanto per citare in giudizio altre imprese.
Nel caso specifico dell’americana Strike 3, un programma automatico sorveglia costantemente BitTorrent cercando gli indirizzi IP, ovvero i codici numerici che identificano ogni connessione internet, di chi scarica i loro video. L’azienda aspetta che una persona scarichi almeno 24 file, accumulando prove per mesi o anni. Poi fa causa a un “imputato anonimo” e chiede al giudice di obbligare i fornitori di internet a rivelare chi c’è dietro quell’indirizzo IP. A quel punto arriva la lettera con l’ultimatum: o paghi migliaia di dollari di accordo o ti facciamo causa e il tuo nome finirà sui documenti pubblici del tribunale accanto ai titoli dei film porno che hai scaricato.
Questa strategia ha attirato l’attenzione della magistratura americana. Nel novembre 2018 un giudice americano, Royce Lamberth, ha definito Strike 3 un copyright troll. Secondo il magistrato, “l’azienda trasforma la giustizia in un mezzo di estorsione, mettendo a rischio la privacy e la reputazione degli utenti”. Nonostante le critiche, il business continua a essere redditizio.



