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lunedì, Mar 30

Coronavirus, 5 cose che (ancora) non sappiamo



Da Wired.it :

Dalla correlazione con gli attacchi cardiaci fino alla perdita di olfatto e gusto come manifestazione precoce della Covid-19, passando per potenziali vaccini e altri farmaci sotto sperimentazione. Pure sulle dinamiche di contagiosità e immunizzazione dal coronavirus restano alcuni dubbi

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(foto: Antonio Masiello/Getty Images)

Mai nessuna minaccia sanitaria per la nostra specie è stata studiata così intensamente, e con così tanta tecnologia e conoscenza scientifica, quanto ora si stia facendo per il minuscolo coronavirus Sars-Cov-2. In fondo abbiamo imparato a riconoscerlo e identificarlo appena qualche settimana fa: l’abbiamo isolato e ne abbiamo sequenziato il genoma a gennaio, gli abbiamo dato un nome a metà febbraio e in meno di un trimestre da quando si ha contezza della sua pericolosità abbiamo già buone informazioni sul modo in cui agisce nel nostro corpo, sulla sua effettiva letalità e su quali tipi di farmaci diano più speranze di successo.

Ancora però non possiamo dire di sapere tutto del nuovo coronavirus, ma anzi ci sono diversi aspetti fondamentali che sono ancora poco conosciuti, incerti, o del tutto ignoti. E se qui su Wired abbiamo già raccolto una lista di cose che sappiamo e non sappiamo dal punto di vista epidemiologico, questa volta proponiamo una rassegna focalizzata sugli aspetti medici e clinici della malattia. Dall’esordio dell’infezione virale alle sue manifestazioni e al modo con cui possiamo difendersi, ecco 5 delle cose più importanti ma ancora controverse su cui la comunità scientifica è chiamata al più presto a fare chiarezza.

1. Il coronavirus provoca attacchi cardiaci?

La risposta breve è che sì, la Covid-19 può in generale determinare manifestazioni cliniche simili a quelle di un infarto. Quello che non è noto, invece, è quale sia la frequenza di questi effetti cardiocircolatori, che cosa ne favorisca la comparsa e se si tratti di una manifestazione primaria oppure di una conseguenza secondaria dell’infezione virale.

Quello che sappiamo, come confermano almeno due pubblicazioni scientifiche da parte di medici cinesi e italiani, è che in diversi pazienti positivi al coronavirus si è venuto a creare un quadro clinico simile a quello tipico dell’infarto del miocardio, con tanto di valori anomali della proteina sentinella troponina. Il New York Times, inoltre, ha raccontato di alcuni pazienti creduti dei classici infartuati che in realtà si è scoperto avessero la Covid-19 e non presentassero una storia clinica tale da giustificare un infarto, vista la giovane età e l’assenza di particolari fattori di rischio cardiocircolatorio.

Al momento il principale known unknown su questo aspetto è se gli attacchi cardiaci siano determinati dall’azione diretta del coronavirus sul cuore – ossia se ci siano pazienti in cui l’infezione si manifesta sul muscolo cardiaco anziché a livello polmonare – o se invece si tratti di un effetto collaterale della risposta del sistema immunitario all’infezione respiratoria. La cascata infiammatoria dovuta alla reazione immunitaria a Sars-Cov-2, infatti, potrebbe provocare un tale rilascio anomalo di citochine da danneggiare il tessuto cardiaco.

Questa incertezza apre anche a due questioni importanti, una di natura clinica e l’altra prettamente statistica. Dal punto di vista della gestione dei pazienti che superano l’infezione, resta da capire se gli eventuali danni provocati al cuore siano tutti reversibili o se ne restino tracce permanenti. Sul fronte del monitoraggio epidemiologico, invece, l’evidenza che in alcuni pazienti la Covid-19 si manifesti a livello cardiocircolatorio anziché respiratorio potrebbe portare a un ricalcolo delle vittime del coronavirus, includendo anche persone finora ritenute morte per altre cause.

2. L’anosmia è un sintomo dell’infezione virale?

La perdita totale dell’olfatto (anosmia) o la sua forte riduzione (iposmia) sono manifestazioni tipiche di diverse infezioni respiratorie, nonché delle allergie. E lo stesso vale per il gusto. In generale non è quindi assurdo, né sorprendente, che anche la Covid-19 possa provocare lo stesso effetto, ma anzi si ritiene che la percentuale di pazienti interessati possa essere ben superiore al 15% dei contagiati, e forse in un range tra il 30% e il 60%.

Il tema merita però di essere incluso in questa lista delle cose che non sappiamo per diverse ragioni. Ad esempio, la stessa Organizzazione mondiale della sanità non ha ancora formalmente incluso l’anosmia tra i sintomi tipici della Covid-19, ritenendo che le evidenze non siano a oggi abbastanza robuste. E poi resta il forte dubbio se esistano pazienti in cui la perdita di olfatto è l’unica manifestazione clinicamente rilevante dell’infezione virale, ossia se si possa sfruttare questa condizione per individuare persone potenzialmente contagiate e che per il resto appaiono del tutto asintomatiche.

Inoltre, resta molto incerto il decorso dell’anosmia rispetto al più generale andamento dell’infezione. Vale a dire, è poco chiaro se l’olfatto tenda a indebolirsi fin da subito oppure solo quando l’infezione è ormai risolta. Il fatto che ci siano versioni contrastanti rende difficile sfruttare questo segnale per elaborare nuove strategie di monitoraggio. Infine, non si sa se i pazienti anosmici possano essere significativamente contagiosi, né quanto a lungo possa protrarsi l’assenza di olfatto rispetto alla guarigione clinica dagli altri sintomi e alla negativizzazione dei tamponi.

3. Chi è davvero contagioso?

La domanda su chi possa effettivamente trasmettere la malattia è una delle più ricorrenti fin dall’inizio dell’epidemia. Con il passare dei giorni diverse questioni si sono fatte più chiare, come per esempio il fatto che non solo i pazienti sintomatici ma anche gli asintomatici possano fare da veicoli della trasmissione del virus. Con il termine asintomatici, in questo caso, vanno intese sia le persone che non manifestano mai sintomi sia quelle che stanno per o hanno appena smesso di manifestarli.

Anche se è vero che le persone asintomatiche hanno meno probabilità di trasmettere il virus rispetto a chi ha sintomi evidenti, come la tosse, non è ancora stata fatta chiarezza sulla finestra temporale in cui il contagio asintomatico possa avvenire. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ad esempio, la contagiosità potrebbe protrarsi fino a due settimane dopo la guarigione clinica. A complicare ulteriormente le cose c’è la possibilità che il virus non scompaia totalmente dal corpo anche dopo che il tampone è risultato negativo, e in alcuni casi (fortunatamente rari) potrebbe rimanere latente in quantità molto basse e determinare una ricaduta della malattia nelle settimane successive. Queste persone, dunque, potrebbero rimanere contagiose anche per tutto il periodo tra la prima guarigione clinica e il nuovo esordio dei sintomi.

Ribaltando la prospettiva, restano dubbi anche su chi possa essere contagiato, ossia se chi ha superato la Covid-19 sia davvero immune al virus e, se sì, per quanto tempo. Fino a oggi non sono emerse evidenze di persone che hanno contratto l’infezione virale una seconda volta (se non sotto forma di ricaduta), dunque si potrebbe ipotizzare che almeno un’immunità temporanea possa essere garantita. Tuttavia proprio la novità della minaccia rende impossibile avere informazioni su ciò che accade a medio e lungo termine, e solo con il tempo potremo avere informazioni più precise e scientificamente solide.

4. Quali farmaci sono efficaci contro Sars-Cov-2?

Il tema più generale è se esistano trattamenti in grado di garantire risultati contro l’infezione provocata dal coronavirus. La risposta a oggi, purtroppo, è che una cura di efficacia comprovata non c’è. Questo però non significa che le cose non possano cambiare, e infatti nel mondo si stanno moltiplicando le sperimentazioni e i possibili candidati a diventare trattamenti per la Covid-19.

Se si scende nel dettaglio per i singoli farmaci, ce ne sono alcuni sulla carta più promettenti di altri, e taluni sono già stati definitivamente scartati. Proprio per non dare false speranze, è bene limitarsi a dire la verità su tutto ciò che è ancora in via di sperimentazione: non sappiamo se funzioni o meno.

Abbiamo raccontato qui su Wired di Solidarity, il mega-trial clinico dell’Oms per quattro potenziali farmaci contro il nuovo coronavirus che coinvolgerà migliaia di pazienti in tutto il mondo. Il ruolo di farmaci più promettenti per ora ce l’hanno l’antivirale remdesivir, gli antimalarici clorochina e idrossiclorochina e gli antivirali ritonavir e lopinavir (anche usati insieme), che hanno pure il vantaggio di essere già commercializzati o in fase avanzata di sviluppo per altre patologie. Ossia, hanno già dato dimostrazione di sicurezza. Allo studio ci sono però anche nuovi anticorpi monoclonali, farmaci immuno-modulatori come il tocilizumab e una cinquantina di altri principi attivi che potrebbero fermare il virus. In questo scenario ancora incerto e in rapida evoluzione, l’importante è non sbilanciarsi con toni trionfalistici senza fondamento (come nel caso di Avigan).

5. Avremo mai un vaccino?

In termini assoluti è molto probabile che si riesca a mettere a punto una formulazione vaccinale in grado di garantire una certa immunità dal nuovo coronavirus. I punti incerti sono però quanto a lungo durerà questa immunità e, soprattutto, tra quanto tempo avremo effettivamente un vaccino a disposizione. Come sappiamo, infatti, sviluppare un nuovo vaccino richiede di solito anni di lavoro, e anche accelerando al massimo i tempi si parla di dover attendere ancora quasi un anno, nell’ipotesi più ottimista. Al momento i tentativi non mancano: in fase di sviluppo se ne contano almeno 44.

Come via alternativa, ancora tutta da esplorare, c’è la possibilità che qualcuno dei vaccini già esistenti possa garantire una parziale protezione anche contro Sars-Cov-2. In questo senso uno dei candidati è il vaccino Bcg, l’unico che ancora oggi contiene un ceppo vivo e indebolito di un batterio. Usato attualmente contro la tubercolosi, garantisce un’immunità stimata intorno al 60% nei bambini, e si stanno avviando studi per capire se possa accadere qualcosa di simile anche per il nuovo coronavirus. La speranza (che al momento non è più che un semplice wild guess) è che il Bcg possa potenziare la nostra immunità innata e – proprio come accade per diverse altre infezioni batteriche e virali – possa darci una mano anche contro Sars-Cov-2.

Sono state formulate diverse ipotesi per spiegare come mai l’Africa sia stata (finora) poco colpita dal virus e perché i bambini in tutto il mondo siano molto meno interessati dall’infezione in termini di gravità dei sintomi. C’è chi ha proposto che, anche per l’ i bambini resistano meglio al virus grazie a qualche tipo di protezione indiretta offerta dalle altre vaccinazioni a cui sono stati sottoposti. Ma, come già ribadito, è decisamente troppo presto per trarre conclusioni.

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[Fonte Wired.it]