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martedì, Mar 24

Coronavirus, di quanto stiamo sottostimando davvero i contagi?



Da Wired.it :

Ormai la domanda non è più ‘se’ le persone ufficialmente contagiate siano meno di quelle reali, ma ‘quanto’. Un fattore 10 pare plausibile pure alle nostre istituzioni, ma potremmo arrivare anche a quota 20. Vale a dire, nei bollettini intercetteremmo appena il 5% dei casi reali di Covid-19

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(foto: Salvatore Laporta/Kontrolab/Getty Images)

Che il numero dei casi positivi ufficialmente registrati dalla Protezione civile non rappresenti una misura affidabile dell’effettiva ampiezza del contagio da coronavirus non suona certo come una novità. D’altra parte la strategia stessa di eseguire i tamponi faringei solo su persone sintomatiche, peraltro con un criterio non molto omogeneo a livello territoriale, rende evidente che ci siano molte persone effettivamente infettate dal virus ma che sono destinate a restare per sempre dei casi fantasma. Anzitutto gli asintomatici e gli stracitati pauci-sintomatici, ma anche quelle persone che si aggravano in fretta e ci lasciano prima ancora che qualcuno possa eseguire il test diagnostico.

Ora che i casi totali ufficiali da inizio epidemia hanno superato quota 60mila ed è trascorso più di un mese dal cosiddetto paziente zero, comincia a farsi più stringente la necessità di capire anche di quanto si stia sottostimando la realtà delle cose. Difficile fare affidamento sulle variazioni quotidiane suggerite dal bollettino serale delle 18:00, o anche sui tentativi di delineare la curva epidemica, se allo stesso tempo non è nemmeno chiaro l’ordine di grandezza di coloro che – pur avendo a che fare con qualche forma di Covid-19 – restano invisibili al nostro sistema sanitario e ai conteggi formali.

E non si tratta di un mero esercizio matematico fine a se stesso, bensì di una stima necessaria per poter ricavare un range entro cui collocare altri dati fondamentali, fra cui ad esempio la letalità effettiva dell’infezione virale. Un tema sollevato anche nelle ultime ore da un paper scientifico pubblicato sulla rivista Jama, firmato anche da Gianni Rezza e Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità, in cui la strategia di esecuzione dei tamponi viene inclusa tra i tre possibili fattori che spiegano la differenza di letalità apparente tra Italia e Cina (gli altri due sono l’anzianità della popolazione e la solita distinzione tra morti per e con il coronavirus).

I tentativi di stima

Ci sono diverse strategie con cui si può provare a determinare quanti casi stiano restando esclusi dalle statistiche ufficiali. Per esempio si potrebbe partire dal dato, raccolto in Corea del Sud grazie all’esecuzione di tamponi a tappeto, secondo cui la fascia 20-29 anni è la più interessata dall’infezione virale e rappresenta quasi un terzo del totale dei contagi, mentre secondo i dati italiani darebbe un contributo pressoché nullo e prossimo al 4%. Evidentemente, ci sono moltissimi casi fantasma proprio in quella fascia d’età, anche perché include persone che fortunatamente superano con più facilità la malattia. Oppure ancora si potrebbe partire dall’analisi di dati più precisi ma su scala spaziale ridotta, come ad esempio dai test di massa eseguiti a Vo’ Euganeo.

Ma di che numeri si parla, in sostanza? Se Ilaria Capua già a inizio marzo aveva proposto che tra casi registrati e casi reali ci potessero essere addirittura due zeri di differenza, le istituzioni sono sempre state più prudenti. È appena di qualche ora fa, per esempio, la dichiarazione di Angelo Borrelli (capo dipartimento della Protezione civile) a Repubblica secondo cui una stima “credibile” per i non censiti è che siano 10 volte più dei casi formalizzati. Si tratta finora del fattore correttivo più alto mai comunicato da persone direttamente coinvolte nella gestione dell’emergenza.

Su una posizione intermedia tra le due si collocano, infine, i risultati di uno studio scientifico (ancora da sottoporre alla revisione dei pari) che mette a confronto la situazione nei vari Paesi del mondo. Secondo questa analisi, basata sui dati aggiornati ai bollettini del 22 marzo, l’Italia avrebbe intercettato appena il 4,7% dei casi reali di coronavirus (o meglio, staremmo in un range tra il 4,1% e il 5,4%), ossia grossomodo solo 1 caso ogni 20 sarebbe stato individuato grazie ai tamponi. Lo stesso studio sostiene che la Francia ne starebbe individuando 1 su 10, la Cina 1 su 3, mentre la Germania e la Corea del Sud ne avrebbero trovati almeno la meta, e potenzialmente quasi tutti. La Spagna sarebbe proprio come l’Italia intorno a 1 su 20, mentre significativamente peggio farebbe solo l’Indonesia con 1 ogni 40.

I problemi delle stime internazionali

Se da un lato questi confronti internazionali rendono evidenti le differenze da Paese a Paese, e di fatto potrebbero bastare per ridimensionare le varie teorie sull’anomalia italiana e sull’anomalia lombarda in termini di letalità apparente, dall’altro vanno comunque presi con attenzione perché non tengono conto di alcune peculiarità nazionali che possono influire sul computo finale.

In sostanza, i ricercatori hanno ritenuto di assumere come letalità effettiva della Covid-19 l’1,38% (ossia il valore stimato per la Cina sulla base dei vari studi scientifici) per tutti i Paesi del mondo, indipendentemente da tutte le altre caratteristiche. E poi hanno utilizzato il numero di decessi di persone positive al coronavirus per ricavare il numero presunto dei contagi totali, confrontandolo con quello dei contagi ufficialmente riscontrati.

Per l’ questo ha senz’altro dato origine a due distorsioni, che però vanno in direzioni opposte e quindi potrebbero parzialmente compensarsi. Un primo elemento riguarda la distribuzione demografica per fasce d’età: dato che siamo un Paese più vecchio della Cina, e che la metà dei decessi italiani sono stati registrati in persone ultra 80enni e in molti casi pluri-patologiche, è ragionevole pensare che la letalità effettiva italiana sia più alta di quella cinese, che che dunque l’errore nel conteggio dei casi positivi sia stato sovrastimato.

Se per esempio scoprissimo che la letalità effettiva italiana è doppia rispetto alla Cina (proprio in virtù di un maggior numero di quadri clinici già in partenza più critici), allora la stima dei casi totali andrebbe dimezzata, e quindi la percentuale dei casi intercettati raddoppierebbe. Ritroveremmo, insomma, il fattore 1 a 10.

Sul fronte opposto c’è invece il computo dei decessi. Soprattutto per l’ che come sappiamo è il primo Paese al mondo per morti di persone positive al coronavirus, il dato di quanti exitus legati alla malattia non siano mai stati diagnosticati può assumere una dimensione significativa. Le morti di persone anziane in casa o nelle case di riposo, come sappiamo, non sono ancora state (e forse non saranno mai) indagate a fondo, quindi potrebbe essere necessario correggere al rialzo il computo dei deceduti e dunque anche le stime dei contagi. Resta poi aperta anche la questione del modo eterogeneo in cui i diversi Paesi calcolano i decessi associati alla Covid-19, che naturalmente influisce non poco nell’esecuzione di raffronti internazionali.

Quanti casi abbiamo davvero in Italia?

Naturalmente nessuno ha una risposta precisa a questa domanda, che è da settimane tra le più ricorrenti. Sulla base delle informazioni disponibili a oggi, i 64mila casi ufficiali da inizio epidemia corrispondono con tutta probabilità a oltre mezzo milione di italiani infettati dal coronavirus Sars-Cov-2 da quando abbiamo contezza dell’arrivo dell’epidemia in Italia. Per arrivare a quota 500mila, infatti, sarebbe sufficiente ipotizzare un fattore correttivo 8, che tutto sommato è piuttosto basso.

Immaginando che la quota di infettati precedente al 21 febbraio sia molto minoritaria rispetto a quanto è accaduto dopo, una prima stima per eccesso potrebbe essere (considerando la versione più pessimista dello studio internazionale, ossia il 4,1%) di 1,6 milioni di nostri connazionali attualmente interessati o già guariti dall’infezione virale.

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[Fonte Wired.it]