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sabato, Feb 29

Coronavirus e corse all’accaparramento: è giusto parlare di panico e isteria?



Da Wired.it :

Davvero le persone impazziscono molto facilmente in situazioni di emergenza? Capire come funzionano davvero i gruppi ci può aiutare ad affrontare meglio il nuovo coronavirus

23 febbraio 2020, a Casalpusterlengo le persone attendono di entrare nel supermercato (foto: MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Nell’incertezza, almeno una previsione si può azzardare. L’epidemia da coronavirus Sars-CoV-2 in Italia sarà un caso di studio per comunicatori e scienziati sociali per molto tempo. Dalle prime notizie da Wuhan esempi di allarmismo sui nostri media (quando non di vero e proprio sciacallaggio) non si contano. Per questo almeno in parte bisogna ringraziare una comunicazione istituzionale inadeguata. Gli influencer intanto battibeccano, e così i loro pubblici: il conflitto diventa una notizia e si aggiunge all’infodemia.  E poi, ovviamente, ci sono le bufale e i complotti, come sempre: ma questa volta sembra più chiaro che le fake news siano comprimarie, più che protagoniste.

Ora le stesse fonti di informazione stigmatizzano comportamenti come l’assalto ai supermercati, cioè l’accaparramento di merci da parte della popolazione. In inglese si parla di panic buying e anche da noi panico, isteria e psicosi sono parole molto usate per caratterizzare questi fenomeni. Eppure la realtà è più complessa.

Psicologia e crisi

“Faccio molta fatica a vedere panico, psicosi, in persone che si mettono in fila perché pensano sia meglio avere scorte piuttosto che non averle. O che passano molto tempo a parlare tra loro dei pericoli connessi al Coronavirus esibendo le loro preoccupazioni”  spiega a Wired.it Lorenzo Montali, docente di psicologia sociale all’università di Milano Bicocca.

E diventa ancora più difficile se analizziamo il contesto in cui questo è accaduto. Da gennaio si parla di una malattia di origine ignota e senza cura, ma pareva un problema soprattutto della Cina. E per settimane i media ci hanno mostrato città deserte, parlandoci dei problemi che i cittadini cinesi avevano per fare la spesa dato che non potevano uscire di casa. Da un giorno all’altro, però, il nuovo coronavirus è arrivato da noi. Sono state decise e comunicate misure eccezionali, tra cui quarantene e chiusure di luoghi pubblici. Ai cittadini si è raccomandato di evitare luoghi affollati. Nelle nostre reti sociali, reali e virtuali, ne parliamo di continuo. Cerchiamo di adattarci, chi può si attrezza col telelavoro. E per la spesa in molti hanno pensato di comprare più del normale. Non è panico questo – spiega Montali – è una reazione che ha una sua razionalità, date le informazioni ricevute.

Questo non equivale assolutamente a dire che sia giusto e desiderabile un supermercato vuoto. Qualcuno avrà sicuramente comprato molto di più del necessario. Inoltre quando siamo insieme interviene l’imitazione, e la disposizione delle merci nei negozi è progettata per incentivarla in condizioni normali. Non si vogliono negare nemmeno le tensioni tra le corsie, o che qualcuno abbia creduto a false notizie, come quella di una Milano in quarantena. Il punto è che programmare un accumulo di risorse, dettato probabilmente più dall’aver capito e accettato la strategia di isolamento, che dalla paura della malattia in sé, è un po’ difficile da chiamare panico.

La follia delle folle?

Il panico è definito come un’improvvisa sensazione di paura che porta a lottare istintivamente per la propria vita, quindi non pensando razionalmente. Quando si manifesta in assenza di pericolo, abbiamo l’attacco di panico. Nonostante l’espressione panico di massa sia molto diffusa, soprattutto giornalisticamente, è un po’ difficile esportare questa definizione a livello collettivo. Esistono i cosiddetti panici morali, dove sentiamo i nostri valori minacciati da un rischio artefatto (per esempio, la paura dei clown rapitori o degli abusi satanici), ed esistono i malori collettivi, dove molte persone manifestano gli stessi sintomi di una malattia priva di cause biologiche. Ma quando sentiamo parlare di panico di massa il pensiero va, per esempio, alla Guerra dei mondi di Orson Welles, o a quelle tragedie dove le persone che rimangono schiacciate evacuando un locale.

Eppure oggi sappiamo che quasi nessuno credette all’invasione aliena, e ancora meno ebbero reazioni di panico. Anche su evacuazioni e simili diversi ricercatori affermano che il panico di massa è più mito che realtà. Tragedie come quella di Corinaldo derivano più dalla densità delle persone che dalle reazioni di panico. Come ha detto nel 2015 il professor Keith Still, studioso del comportamento delle folle a proposito di questi episodi “le persone non muoiono per il panico, vanno in panico perché stanno morendo”. Al di là delle definizioni, secondo Montali lo storytelling della folla che impazzisce è un’idea un po’ reazionaria che ha una lunga tradizione: pensiamo, per esempio, all’assalto ai forni descritto da Manzoni (tra l’altro evocato spesso in questi giorni). Ci dà la possibilità di biasimare un gruppo, ovviamente diverso dal nostro. In questo caso sono, ovviamente, gli altri che si sono messi in fila al supermercato. Sono, pensiamo, quelli che guardano solo la tv, quelli che non leggono libri, che non sono informati come crediamo di esserlo noi. È quella massa che reagisce irrazionalmente in queste situazioni, mica noi. Chi studia i gruppi invece sa che, al contrario della narrazione prevalente, tendono a reagire alle emergenze anche in modo cooperativo e altruistico, invece che egoistico e distruttivo.

Come comunicare?

I media faticano a rinunciare alla storie sulla gente che impazzisce, e non è un problema italiano. Per esempio dopo l’uragano Katrina televisioni e giornali ci hanno dipinto una New Orleans precipitata nella violenza, anche se non era affatto così. Ma se uno scaffale vuoto è una notizia anche in tempi normali, non si può certo pretendere che i media non parlino delle code e mostrino le immagini dei supermercati affollati. Come si possono raccontare fenomeni come questo in maniera responsabile? “In questo caso forse sarebbe bastato dare tutta l’informazione. I supermercati affetti sono stati comunque una minoranza. Non erano preparati, ma la situazione è tornata alla normalità in brevissimo tempo.” afferma Montali.

Secondo il professore è importante anche dare voce agli esperti giusti. Così come non tutti gli scienziati sono addetti ai lavori quando si parla di clima, lo stesso vale per i fenomeni di competenza delle scienze sociali. Il comportamento dei gruppi è studiato nell’ambito della psicologia sociale, un’altra disciplina che dobbiamo considerare per capire come affrontare il nuovo coronavirus.

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[Fonte Wired.it]