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martedì, Gen 12

Coronavirus, ha senso chiudere le province invece delle regioni?



Da Wired.it :

La proposta di dividere l’Italia per province nell’organizzare le fasce “a colori” e i lockdown circola da mesi. Ci sono potenziali vantaggi ma anche diverse criticità: al momento l’ipotesi di abbandonare lo schema per regioni pare piuttosto remota

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(foto: Ross Sneddon/Unsplash)

Quello della scelta della scala territoriale su cui impostare le restrizioni anti-contagio è un tema che ci accompagna fin dall’inizio della pandemia, e soprattutto dalla cosiddetta seconda ondata, ossia a partire dalla risalita dei contagi con la fine dell’estate e il mese di ottobre. In linea teorica le possibilità sono moltissime: un’unica zona nazionale senza alcuna distinzione dall’Alto Adige alla Sicilia, la suddivisione in regioni (con l’eccezione delle province autonome), l’organizzazione su scala provinciale e persino qualcosa di ancora più fine, su base comunale o poli-comunale.

Di fatto, la suddivisione in province è l’unica che non è mai stata tentata. Prima del primo lockdown, all’inizio dell’epidemia in Italia tra fine febbraio e inizio marzo, sono state imposte zone rosse sui pochi comuni che (almeno dai dati ufficiali) erano i più colpiti dal nuovo coronavirus. Poi siamo passati alla chiusura nazionale, uniforme in tutto il paese. Quindi – con un salto in avanti di molti mesi – siamo approdati all’organizzazione per regioni con le famose e scricchiolanti zone a colori: prima gialle, arancioni e rosse, poi con ulteriori sfumature di colore, temporanee uniformizzazioni nazionali nel periodo delle feste e infine il ritorno al modello pre-natalizio, con la nuova idea della zona bianca, che forse per ora è più un auspicio che una possibilità concreta.

La discussione italiana sulle chiusure provinciali

Anche se l’ipotesi è circolata da sempre nel nostro paese, una vera discussione su questo tema si è sollevata tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, quando si è reso necessario adottare nuove misure anti-contagio prima che la situazione sfuggisse definitivamente di mano. In quella fase è stato lo stesso Comitato tecnico-scientifico, almeno secondo le informazioni giunte alla stampa, ad aver proposto chiusure solo su base provinciale anziché su base nazionale o regionale. Va comunque detto che allora il punto chiave, sulla base dell’esperienza del primo lungo lockdown, era di non arrivare più alla chiusura completa e uniforme dell’ sia perché avrebbe avuto poco senso dal punto di vista scientifico sia perché il governo stesso aveva promesso che non ci sarebbe più stata una serrata totale.

(I dati della mappa sono aggiornati ogni giorno all’ultimo bollettino disponibile. La Basilicata per ora è esclusa per un problema ai dati)

Alla fine della discussione come sappiamo si è deciso di optare per il modello a tre colori su base regionale, come di fatto continua a essere tutt’ora, sempre al netto degli aggiustamenti metodologici sui parametri e sulla colorazione delle fasce.

La novità degli ultimi giorni, che di fatto è una non-novità, è che ora è evidente come il sistema delle zone gialle, arancioni e rosse necessiti in qualche modo di essere prolungato nel tempo, mentre forse con il modesto calo dei contagi di inizio dicembre ci si era illusi che si potesse affrontare un periodo più rilassato dal termine delle feste in poi. Insomma, ne avremo ancora per un bel po’. Ecco perché è cronaca di questa settimana la riproposizione (a livello social e mediatico) del modello per province, almeno come discussione generale. Al momento, comunque, dalle cronache politiche pare non trasparire l’intenzione di valutare seriamente questa ipotesi, ma anzi sembra sempre più radicata la convinzione di proseguire con lo schema regionale.

Alcuni pro e diversi contro

Naturalmente non c’è un meglio e un peggio in assoluto tra la suddivisione per province e quella per regioni, ma si possono fare diverse considerazioni. A favore della provincializzazione delle fasce c’è un’argomentazione principale e dominante: raffinare la mappa spaziale dell’Italia significa poter essere più capillari sul territorio, quindi concentrare le chiusure nelle aree davvero più critiche, consentendo un certo grado di riapertura in quelle zone dove il contagio non è particolarmente diffuso. Insomma, ridurre quei sacrifici percepiti come non necessari che alcune province vivono come un’imposizione a causa dei contagi negli altri territori nella stessa regione. E se una suddivisione comunale sarebbe in concreto ingestibile, il livello provinciale potrebbe essere un giusto compromesso tra la differenziazione dei territori e la praticabilità delle misure.

Sempre sullo stesso fronte, poi, si aggiungono valutazioni accessorie. Per esempio, spiegano i sostenitori della proposta, si potrebbe far sentire i cittadini più direttamente responsabili del loro destino, poiché la dimensione regionale è così ampia da portare le persone a percepirsi come pedine insignificanti di un gioco troppo grande, deresponsabilizzandole. Infine, si potrebbero di fatto riaprire fin da subito alcune province periferiche rispetto ai grandi centri, dove per una serie di fattori i contagi si sono sempre mantenute piuttosto bassi.

Sull’altro piatto della bilancia, le possibili obiezioni sono parecchie. Per esempio, spezzettare l’Italia in 107 aree territoriali aumenterebbe di moltissimo i confini da presidiare, o comunque (anche se si decide di non presidiarli) farebbe salire enormemente il numero di persone che quotidianamente devono o dovrebbero spostarsi da una zona all’altra. Ancora più complesso rischierebbe di essere, poi, il quadro politico: oltre ad avere gli interlocutori nazionali e quelli delle singole regioni, si inserirebbero nel complesso scacchiere degli stakeholder ulteriori attori più locali, intricando ancora di più le contrattazioni. E le regioni, che gestiscono ciascuna la propria sanità territoriale, si troverebbero a dover differenziare il trattamento per le singole province, con ulteriori possibili problemi di conflittualità interna. Insomma, già con il modello regionale stiamo vedendo continui battibecchi, e con le province i litigi rischierebbero di crescere a dismisura.

Altra complicazione sarebbe poi dal punto di vista numerico. Sarebbe necessario valutare i vari parametri (pensiamo per esempio a Rt) non più su base regionale ma provinciale, a meno di limitarsi a parametri ancora più semplificati come il solo computo dei casi registrati o delle ospedalizzazioni. E alla riduzione dei famosi 21 parametri, auspicata da mesi, farebbe da contraltare una crescita enorme del numero di entità territoriali da valutare. Insomma, avremmo tabelle con meno colonne, ma con più righe. Senza contare che in generale la mobilità interprovinciale, anche dal punto di vista delle strutture sanitarie, è molto più alta di quella interregionale.

Una possibile via per risolvere questi grattacapi è quella proposta da Paolo Spada di Pillole di ottimismo. Vale a dire, ridurre a due i possibili colori: rosso e verde, o rosso e bianco che dir si voglia. In questo schema, dunque, una provincia sarebbe o in lockdown oppure in un (cauto e misurato) liberi tutti, senza condizioni intermedie. Con il pregio di avere una versione più gestibile, ma allo stesso tempo con salti piuttosto bruschi nello spazio e nel tempo. Con comuni attigui di province diverse che potrebbero avere misure totalmente differenti, e modifiche da una settimana all’altra che potrebbero rivoluzionare la vita alle persone. Perdendo anche tutte quelle sfumature di apertura che, per quanto possibile, tentano di mantenere in vita una serie di attività.

Infine, un punto neutro: comunque siano scelti e tarati i parametri, e qualunque sia il numero di colori, bisognerebbe capire quanto poi in pratica la situazione cambierebbe rispetto a quella delle regioni. Detto in altri termini, ci sono zone del paese dove il virus circola di più, e la suddivisione regionale già individua e intercetta piuttosto bene queste aree. Certo, ci sono province che sono penalizzate con chiusure eccessive, e altre che invece meriterebbero il lockdown ma sono salvate (se così si può dire) dal resto della regione in cui la situazione è migliore. Ma quante province sono effettivamente disallineate rispetto alla regione di appartenenza? Ne vale davvero la pena, o sarebbe più la complicazione che il beneficio?

Proposte, pubblicazioni scientifiche e casi di studio

In realtà già la suddivisione in regioni pone l’Italia tra i paesi con la maggior articolazione territoriale delle misure. In molti stati, infatti, la decisione è di uniformare i provvedimenti su tutto il territorio nazionale, senza prevedere distinzioni. Naturalmente ci sono anche paesi con divisioni interne, come gli Stati Uniti in cui ciascuno stato può adottare proprie misure oppure il Regno Unito in cui ci sono differenze tra Scozia, Galles e Inghilterra.

L’esempio forse più estremo è quello del Portogallo, che con i suoi soli 10 milioni di abitanti ha organizzato differenziazioni in 308 diverse municipalità territoriali. Va però detto che le decisioni, quando vengono prese, riguardano molte municipalità per volta, tanto che di fatto c’è una buona uniformità a livello regionale, con una distinzione che tende a crearsi tra le aree urbane più popolate e quelle periferiche.

Interessante anche per l’ ma complessa da mettere in pratica, potrebbe essere proprio la distinzione tra centri abitati più o meno grandi. In realtà qualcosa in questo senso è già stato fatto con le limitazioni agli spostamenti nel periodo natalizio (e successivo) e la distinzione a seconda del numero di abitanti. Complesso, invece, il monitoraggio sulla base dei dati, perché significherebbe in pratica scendere a livello dei singoli comuni.

La letteratura scientifica su questa discussione è ancora piuttosto scarna. Ci sono studi che suggeriscono di portare attenzione all’introduzione delle suddivisioni territoriali, perché potrebbero acuire nazionalismi o localismi (a seconda della scala a cui si guarda il problema), enfatizzando la rivalità più che la cooperazione territoriale. Altri che sottolineano come il tipo di divisione geografica più opportuna dipenda soprattutto dall’ordinamento dello stato e dalla sua gerarchia interna, spiegando che gli interventi sono di solito più efficaci sulla stessa scala spaziale su cui è organizzato il sistema sanitario. Per l’ dunque, sarebbe quella regionale. Ma in tutti i casi è decisamente presto per parlare di evidenze scientifiche, sia dal punto di vista dell’efficacia per contenere i contagi sia per l’impatto economico determinato.

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[Fonte Wired.it]