Seleziona una pagina
lunedì, Mar 02

Coronavirus, perché le vittime anziane non ci fanno soffrire



Da Wired.it :

La sensazione è che non stiamo onorando quelle morti. Che stiamo trattando questa epidemia come un problema dalle conseguenze contenute e che la retorica del “non fermarci” stia asfissiando una sacrosanta elaborazione del lutto

Ospedale maggiore di Lodi (foto: Claudio Furlan/LaPresse)

Ne stiamo parlando come se fosse inevitabile. Liquidando quelle esistenze così, come un effetto collaterale tutto sommato accettabile del Covid-19 e non come una delle sue più dolorose conseguenze. Nonostante in molti abbiano tentato di porre l’accento sugli anziani e in generale sui soggetti più fragili, fra i più colpiti dall’epidemia e sui quali si concentra la più elevata probabilità di letalità, il tenore non sembra essere cambiato più di tanto. Dall’inizio della diffusione abbiamo contato oltre 40 morti, tutti in età avanzata, ma non gli abbiamo mai dato un nome, trarre rare eccezioni. Non ne abbiamo mai raccontato le storie. Non ce n’è fregato granché.

Il bollettino di contagi, ricoveri, guarigioni e decessi, che la Protezione civile fornisce alle 18 di ogni giorno, non si porta dietro le vicende di queste vittime. Ci dà, come dev’essere per il rispetto della privacy, dei numeri, le età, le collocazioni geografiche, e nient’altro. Ma quelle scomparse che aumentano non innescano alcunché nel corpo (poco) pensante della società, spiazzata da un ostacolo che non era pronta neanche a considerare. Eppure uno studio di alcuni giorni fa, “Vital Surveillances: The Epidemiological Characteristics of an Outbreak of 2019 Novel Coronavirus Diseases (COVID-19)” pubblicato sulla rivista scientifica Chinese Journal of Epidemiology, ha evidenziato come il tasso di mortalità per chi ha oltre 80 anni sia del 14,8% per scendere all’8% fra i 70 e i 79 anni, il 3,6 fra i 60 e i 69 e così via a crollare fino allo 0,2% nelle fasce di età fino ai 10 e nessun decesso fra i 0 e i 9 anni, con anche le infezioni piuttosto ridotte nelle fasce infantili.

Nonostante le cifre parlino fin troppo chiaro, nel corso di questa prima settimana abbondante di emergenza questi decessi sono stati archiviati frettolosamente, quasi sempre con il giustificativo corollario dell’età avanzata e delle patologie pregresse. Che ovviamente sono la ragione di una letalità più spietata. Ma che, tuttavia, significano poco o nulla: la sensazione è che non stiamo onorando quelle morti. Che, cioè, stiamo trattando questa epidemia come fosse un problema dalle conseguenze tutto sommato contenute, una sindrome virale che ammazza i vecchi i quali, in fondo, quanto si aspetterebbero di vivere ancora? Dimenticandoci nello stesso tempo dei soggetti fragili, di chi ha patologie invalidanti, di chi è sottoposto a terapie invasive e debilitanti. Dimenticandoci di noi: perché tutti saremo vecchi e tutti potremmo ritrovarci, un giorno, fragili.

La retorica del “non fermarci”, di ripartire subito, di andare al cinema a ogni costo anche se a una poltrona di distanza dagli altri, di infilarci in un bar anche se solo col servizio al tavolo, queste piccole ma fondamentali faccende della quotidianità – che certo sono importanti per la tenuta psicologica di tutti – rischiano però di asfissiare una corretta elaborazione del lutto. Ci stanno strappando la sacralità di celebrare quelle morti per le quali non vedo scorrere troppe lacrime, se non quelle intime dei famigliari, né spendersi troppe opinioni e analisi. Ci ha pensato l’altro giorno Ferdinando Camon, sulla Stampa, ad accendere una luce: “I vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l’informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni?”. 

Ma soprattutto, davvero la morte degli anziani può rassicurarci? In che misura perdere un nonno, una madre, uno zio – o semplicemente sapere che rischia molto più di noi – può rendere più accettabile la diffusione del Sars-Cov-2? “Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è mio papà, è il papà di Vladimiro e Angelo. È il marito di mia madre Linda. È il nonno di Nicole e di Leonardo” ha detto una settimana fa a Repubblica la figlia del 77enne di Vo’ Euganeo morto all’ospedale di Schiavonia. Il disorientamento dei primi giorni è forse comprensibile ma ora dovremmo cominciare a prendere le misure del nostro dolore. Senza buttare ogni morte sotto il tappeto dell’età, come se l’anzianità fosse già una mezza malattia e non una condizione suprema dell’essere umano, da tutelare – e onorare, quando viene così tragicamente troncata – alla pari di tutte le altre stagioni della vita. Soprattutto nel pieno di una guerra contro un virus sconosciuto senza il quale non è detto che quelle esistenze si sarebbero interrotte.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]