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lunedì, Ott 07

Cosa c’entra l’Italia con l’inchiesta sul Russiagate?


Un pezzo dell’inchiesta condotta dal procuratore Robert Mueller riguarda il nostro paese, un’università pubblica e un professore maltese. Ed è un pezzo diventato molto importante per il futuro di Donald Trump

Foto di Fabio Cimaglia / LaPresse

La visita italiana del segretario di stato Usa Mike Pompeo, programmata da tempo con il mandato ufficiale di discutere di dazi, sanzioni alla Russia e approccio allo scenario libico, potrebbe essere stata qualcosa più di un semplice appuntamento diplomatico di routine. A rivelarlo è stato il sito di informazione Daily Beast, in un articolo che tratteggia i contorni di quella appare come una vera e propria contro-inchiesta messa in piedi dall’amministrazione Trump, per screditare l’operato dell’ex procuratore speciale Robert Mueller sul caso Russiagate.

L’impegno in Italia di Pompeo, “il soldato più fedele di Donald Trump” secondo una fortunata definizione del New Yorker, arriva a poco più di una settimana dalla missione-lampo di William Barr e John Durham, rispettivamente procuratore generale e procuratore del Connecticut, che sempre secondo il Daily Beast sarebbero sbarcati a Roma nella massima segretezza per incontrare i vertici dei servizi segreti italiani.

Un gioco di spie e di emissari diplomatici nel quale il nostro paese riveste un ruolo centrale, che ha che fare con l’indagine su Donald Trump e i suoi contatti con la Russia durante la vittoriosa campagna elettorale del 2016, ma soprattutto con Joseph Mifsud, un oscuro ed enigmatico professore maltese – oggi irrintracciabile – che il rapporto Mueller descrive come la miccia che per poco non faceva saltare l’amministrazione americana.

Il fil0ne italiano del Russiagate

Per ricostruire il ruolo di Mifsud nell’inchiesta condotta da Robert Mueller, bisogna partire da un altro dei protagonisti di questa storia: George Papadopoulos.

Oggi lo conosciamo come il primo condannato per la serie di avvenimenti collettivamente noti come Russiagate (14 giorni di carcere per aver mentito all’Fbi nel 2017) ma al tempo dei fatti Papadopoulos era solo un giovane e brillante collaboratore di Donald Trump, entrato nella campagna elettorale del miliardario newyorkese da volontario, come consulente per la politica estera.

Nell’introduzione al documento che tira le somme sull’indagine durata oltre due anni, si fa riferimento a Papadopoulos come alla causa scatenante dell’intera inchiesta sulle interferenze russe, partita dalla segnalazione di un alto diplomatico australiano che nel maggio del 2016 aveva ricevuto in confidenza, proprio da Papadopoulos, l’anteprima di quella che sarebbe stata la divulgazione delle mail rubate al comitato di Hillary Clinton.

Papadopoulos era solo un ingranaggio nella macchina da guerra messa in piedi da Donald Trump e neanche dei più influenti, ma pochi mesi prima aveva avuto la fortuna di essere apparentemente nel posto giusto, al momento giusto. Nel corso di un incontro organizzato a Roma dalla Link Campus University  un’università privata fondata e presieduta dall’ex ministro dell’Interno e degli Affari esteri democristiano Vincenzo Scotti – aveva infatti conosciuto proprio il professor Mifsud, un docente dell’ateneo romano che nel corso di successivi incontri (almeno “tre o quattro”, come ebbe modo di dichiarare il maltese) si propose come facilitatore di una possibile collaborazione tra lo staff di Trump e il governo russo.

Nel giro di qualche mese Mifsud fece incontrare a Papadopoulos una ragazza russa, tale Olga Polonskaya, presentata come “nipote di Putin” ma rivelatasi poi una semplice ex studentessa della Link University, e lo mise in contatto con Ivan Timofeev, uomo vicino al ministro degli esteri russo, con cui intrattenne qualche chiamata su Skype. La scalata al Cremlino toccò il suo apice il 26 aprile 2016, quando Mifsud incontrò Papadopoulos a Londra e gli rivelò di aver parlato con “funzionari russi di alto livello” e che durante il suo ultimo viaggio a Mosca era venuto a conoscenza di “migliaia di mail” trafugate a Hillary Clinton.

Per quanto ne sappiamo, quella fu la prima volta che un membro dello staff di Trump entrò in contatto con tale informazione, prima che le mail fossero pubblicate nel giugno e luglio dello stesso anno da DCLeaks e Wikileaks.

La scomparsa di Mifsud

Nonostante la denuncia del funzionario australiano e il successivo interrogatorio dell’Fbi a George Papadopoulos, la figura di Joseph Mifsud rimase per molto tempo ai margini delle ricostruzioni ufficiali sul Russiagate. Il docente maltese fu infatti ascoltato per la prima e ultima volta dalle autorità americane solo nel febbraio 2017 e potendo contare su informazioni piuttosto frammentarie (derivanti dall’interrogatorio al consigliere di Trump, in seguito considerato reticente).

Nell’ottobre del 2017 Mifsud scompare nel nulla, diventando irreperibile per amici e famigliari, ma anche per l’Fbi, che nel frattempo si era messa sulle sue tracce. L’ultima persona a sentirlo secondo le ricostruzioni è la compagna ucraina, con un sms datato 31 ottobre. Da quel momento, il nulla.

Come ha ricostruito Luciano Capone in un’inchiesta pubblicata sul Foglio, però, Mifsud sarebbe rimasto nascosto per circa sette mesi in una palazzina romana vicino Villa Borghese, con un contratto d’affitto intestato a una società compartecipata dalla Link University – che nega ogni coinvolgimento – e dallo stesso Mifsud. L’ultimo avvistamento del professore risale al 21 maggio 2018, nello studio dei suoi avvocati di Zurigo.

A raccontare l’ultimo colpo di scena, quello che negli ultimi giorni ha portato a Roma gli alti funzionari dell’amministrazione Trump, è però ancora una volta il Daily Beast, secondo cui Joseph Mifsud si sarebbe rivolto alla polizia italiana poco dopo la sua scomparsa, chiedendone la protezione. Per l’occasione il professore ha anche registrato una deposizione filmata, in cui racconta da chi sta scappando e perché, video visionato da Barr e Durham nella loro trasferta italiana.

Cosa cerca l’amministrazione Trump

Il piano di Trump è quello di screditare le indagini di Robert Mueller, trasformando il Russiagate in un gioco di spie di cui il presidente sarebbe stato vittima. Per farlo, però, ha bisogno di depotenziare la figura del professor Mifsud, che in questo scenario sarebbe poco più che una pedina nelle mani dei servizi di intelligence occidentali.

La tesi è attivamente sostenuta dall’avvocato di Mifsud, lo svizzero Stephen Roh, che in un libro e in un’intervista al Foglio parla di “fake Russiagate” e di “complotto dei servizi segreti occidentali contro Trump”. Dello stesso avviso è George Papadopoulos, che su Twitter conduce da tempo una battaglia semantica per sostituire ogni riferimento al Russiagate con il più neutro termine Spygate.

Nella pista battuta dall’amministrazione Trump, la richiesta di protezione presentata da Mifsud alla polizia sarebbe un passaggio cruciale, dal momento che tratteggerebbe un possibile coinvolgimento diretto dei servizi italiani nella vicenda. Non è al momento ben chiaro chi abbia concesso il via libera per l’incontro tra gli esponenti del governo americano e gli 007 italiani, né tantomeno l’autorizzazione a far visionare il filmato della deposizione. Per questo si valuta per le prossime ore una convocazione davanti al Copasir di Giuseppe Conte, titolare della delega ai servizi segreti.

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