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venerdì, Gen 29

Cosa insegna all’Europa e all’Italia la mobilitazione contro la legge sull’aborto in Polonia



Da Wired.it :

L’Unione non riesce a incidere sullo stato di diritto, né a Varsavia né in Ungheria. Mentre il progressivo restringimento praticato negli anni alle norme polacche ci ricorda l’importanza di difendere (e applicare) la 194

Stupro, incesto o pericolo di vita per la madre. Nessun’altra ragione è possibile per praticare l’aborto in Polonia. Si deve non solo a una legge liberticida, fra le peggiori d’Europa insieme a quella maltese, ma anche a una più recente sentenza della Corte costituzionale del paese (risale allo scorso ottobre), che vieta l’interruzione di gravidanza anche in caso di malformazione del feto. Insomma, il divieto è pressoché totale. Le motivazioni di quella sentenza ulteriormente restrittiva sono state appena pubblicate dando ancora più forza al movimento civico Strajk Kobiet (Sciopero delle donne), la cui leader Klementyna Suchanow è stata arrestata a Varsavia, dopo gli scontri avvenuti proprio di fronte alla sede di quella stessa Corte costituzionale. Solo l’ultima manifestazione, replicata in decine di città, di una mobilitazione che va avanti da mesi ma in realtà da anni, perché si lega al progressivo scivolamento della Polonia verso la negazione assoluta dello stato di diritto, al pari dell’Ungheria.

Poolonia, sciopero del 27 dicembre contro la nuova norma sull’aborto

Queste situazioni non nascono all’improvviso ma, come documentavamo mesi fa, sono il frutto di anni di progressivi restringimenti nel campo dei diritti individuali. Nei testi giuridici e nella pratica. La decisione del Tribunale costituzionale, composto in gran parte da giudici conservatori emanazione del Pis – il partito Diritto e giustizia, creatura della famiglia Kaczyński che domina la politica polacca da 15 anni – si innesta infatti su una legge del 1993, bocciandone la parte che si riferiva ai casi di malformazione del feto consentendo l’aborto. Secondo un centinaio di parlamentari quella sezione era in contrasto con i principi costituzionali di difesa della vita e la Corte ha dato loro ragione (incredibile, vero?), stringendo ancora di più le maglie di uno scenario devastante. Un quadro che secondo le stime provoca esodi da 200mila aborti l’anno praticati all’estero, con poco più di un migliaio effettuati in patria nel 2019, la stragrande maggioranza dei quali proprio per malformazione del feto e ora non più possibili (i medici rischiano fino a tre anni di carcere). Secondo la Corte costituzionale polacca rimane un margine di manovra che consenta al Parlamento di Varsavia di apportare qualche modifica, escludendo per esempio dal divieto i casi più gravi di malformazione.

La prima, bruciante lezione che ci danno le piazze polacche – e soprattutto le leggi – è questa: a nulla sono servite finora le proteste, i movimenti femminili e civici ma soprattutto le critiche da parte delle istituzioni europee. Questi paesi, come d’altronde l’Ungheria, sanno che nell’Unione le ragioni economiche e di bilancio hanno spesso la prevalenza sulle questioni dei diritti. E forse è questa l’amarezza e la delusione più profonda del progetto europeo. Basti pensare al modo in cui l’Unione ha gestito le migrazioni, delegando il lavoro sporco al dittatore turco Erdogan a cui dal 2002 ha elargito almeno 15 miliardi di euro non si sa come e dove utilizzati, o più di recente il percorso che ha condotto all’approvazione del Recovery Fund e del nuovo bilancio continentale. Per scavallare i veti incrociati e superare la clausola che declinava la ripartizione dei fondi anche al rispetto dello stato di diritto, questi membri si sono beccati la solita, inutile ramanzina priva di alcuna conseguenza pratica né per la loro condizione di membri Ue né per i loro leader. Sotto questo profilo, l’ennesimo fallimento: Bruxelles si affida sempre a movimenti di piazza, sperando che le cose cambino da sole, trovandosi nel vicolo cieco di non poterli neanche appoggiare in modo ufficiale: si schiererebbe contro sé stessa e comprometterebbe le trattative sui più diversi tavoli.

Il secondo aspetto è sperare che un pezzo di quella “guerra”, come la chiamano in Polonia – To Jest Wojna (“Questa è guerra”) – possa essere raccolta anche in altri paesi, come l’ dove una legge esiste, e sarebbe anche considerata una delle migliori in Europa, ma la sua applicazione è fortemente mutilata, se non in certi territori negata. La n.194 del 1978, confermata dal referendum di tre anni dopo, rischia grosso. E con lei i diritti di tutte e tutti. L’obiezione di coscienza è infatti un cortocircuito che in certe zone conduce anche l’80% dei ginecologi (la media nazionale è del 69%, col 46% degli anestesisti) a rifiutarsi di effettuare l’intervento non sempre e non solo per ragioni di coscienza (pure discutibili, per un ginecologo) ma anche per opportunità tattiche e di carriera. Sovraccaricando i pochi che lo praticano e costruendo una via crucis per le donne. Solo il 60% degli ospedali italiani con un reparto di ostetricia dispone di un servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Per dirne una, non esiste una norma che regoli la presenza in pari percentuali, all’interno di una stessa struttura, di medici obiettori e non.

Per cui la sostanza è che quel diritto non è assicurato uniformemente su tutto il territorio italiano. Per non parlare delle infinite polemiche intorno a metodi come l’aborto farmacologico, dove le linee guida del ministero che da agosto non ritengono necessario il ricovero ospedaliero vengono smentite da regioni come Umbria e Marche. La lezione polacca dovrebbe non solo spingerci a solidarizzare e a pretendere dall’Ue un intervento finalmente coraggioso ma anche ad ascoltare a chi, nel nostro paese, lancia da anni l’allarme sulla 194.

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[Fonte Wired.it]