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mercoledì, Nov 25

Cosa ne è stato del giornalismo all’epoca del brand journalism?



Da Wired.it :

Un nuovo saggio di Michele Bosco, Media House (Dario Flaccovio editore), mette a fuoco la trasformazione digitale dei modelli di business del mondo dei media

Il giornalismo ha la missione di raccontare i fatti, interpretarli e in generale di informare i lettori con onestà intellettuale. Le aziende hanno l’obiettivo di vendere, convincendo i consumatori – spesso tramite la pubblicità – che i loro prodotti sono quelli più desiderabili o di cui hanno bisogno. Due realtà estremamente lontane, per molti  versi all’opposto dello spettro comunicativo. E allora come può esistere ciò che viene chiamato brand journalism e soprattutto come fa ad avere quelle caratteristiche di trasparenza e onestà di cui si cerca sempre di fare sfoggio?

Parliamoci chiaro: il mondo della collaborazione tra giornalismo e aziende non è tutto rose e fiori. Uno dei più chiari esempi di come questo connubio possa prendere una pessima piega lo fornisce Michele Bosco nel suo saggio Media House (Dario Flaccovio editore), un viaggio nella trasformazione digitale dei modelli di business nel mondo dei media (a cui ha partecipato anche il direttore di Wired Federico Ferrazza). Senza citare, come invece fa Bosco, la società e la testata coinvolta, basti sapere che lo scorso anno un importante quotidiano ha stretto un accordo con una grossa società. In questo modo, come si legge nel comunicato stampa che illustrava l’accordo, “tutti i giorni (i lettori) potranno trovare sul quotidiano in edicola una copertura sempre più completa e approfondita sulla (società in questione), con curiosità, notizie, inchieste e interviste”.

Che cosa significa tutto questo? Vista così, la risposta è una sola: una società ha pagato un quotidiano affinché produca contenuti – ovviamente positivi – su di essa. È la stessa interpretazione che fornisce Bosco: “Su cosa si fonda la partnership e in cosa consiste il dare/avere che è normalmente alla base di qualsiasi accordo commerciale? In che modo, poi, questo accordo aiuta il processo di espansione del (quotidiano)? (…) L’interpretazione più semplice pare essere, appunto, che la (società) paga (il quotidiano) affinché (il quotidiano) produca contenuti sulla (società). Con la conseguenza che questo può togliere spazio ad altri temi e, soprattutto, che il racconto non sia oggettivo ma di parte. Difficile parlare male di qualcuno se questo ti paga per farlo, no?”.

Ma questo sarebbe un esempio di native advertising, di brand journalism o di quelle che nell’ambiente editoriale sono da sempre note con la chiarissima definizione di marchette? Al lettore la (non troppo) ardua sentenza. Era inevitabile: con l’emergere di nuove modalità di comunicazione, si crea anche la possibilità di celare dietro buzzword di successo comportamenti apparentemente poco etici e che sembrano dare una sorta di mano di vernice fresca su pratiche decisamente antiquate. 

E allora in cosa consistono invece il brand journalism e il native advertising fatti per bene, in maniera trasparente e rispettosa del lettore? Michele Bosco definisce il native advertising come “un articolo, su un canale ad alta diffusione, pagato da un’azienda perché diventi parte del flusso di notizie su un dato media”. Il brand journalism, invece, è l’esatto opposto: “È contenuto prodotto non sull’impresa, ma dall’impresa, nell’80% dei casi con focus su un’entità esterna, addirittura un competitor, col fine di informare su un ambiente economico del quale, così facendo, si punta a diventare leader”.

Fermo restando che anche il native advertising può parlare d’altro rispetto all’azienda, tutto diventa più chiaro facendo un paio di esempi. Una delle più note operazioni di native advertising a livello mondiale è quella sorta da un accordo tra il Wall Street Journal e Netflix. In occasione del lancio della serie tv Narcos, Netflix pagò il Wall Street Journal per la creazione di uno speciale digitale – chiamato Cocainomics – sulla storia del cartello di Medellin, sui meccanismi delle rotte della droga e su come questo traffico si sia trasformato in un business multimiliardario. Tutti ne hanno tratto vantaggio: Netflix ha pubblicizzato un suo prodotto in maniera innovativa e di qualità, il Wall Street Journal ha reperito le risorse per creare un prodotto informativo di livello altissimo, il lettore ha avuto accesso a un contenuto di grande interesse. Il tutto all’insegna della trasparenza, perché ovunque è stato segnalato come il contenuto fosse sponsorizzato da Netflix.

Un esempio di brand journalism in cui siete probabilmente incappati è invece WePresent, il magazine di WeTransfer che tratta principalmente i temi della creatività, ma che durante le recenti rivolte di Black Lives Matter non ha avuto alcun timore di pubblicare saggi radicali sul razzismo sistemico nella società statunitense. È giornalismo pagato da un’azienda in cui si parla d’altro rispetto all’azienda stessa, col fine – come si legge ancora su Media House – “di informare su un ambiente economico del quale, così facendo, si punta a diventare leader. Si tratta di mettere in evidenza gli altri per portare valore a se stessi. Un valore che ritorna in termini di brand awareness, riconoscibilità di marca, stima”.

WeTransfer ha individuato nei giovani creativi urbani il suo target prediletto – perché probabilmente è la fascia che più sfrutta il noto servizio di file hosting – e ha deciso di diventare non più solo un sito che permette di inviare a terzi file di grandi dimensioni, ma una parte del più complesso ecosistema culturale all’interno del quale il suo target prediletto vive. Creando così “quella riconoscibilità e quella stima che diventeranno fondamentali quando i lettori, i follower, i fan avranno bisogno dei propri servizi e/o prodotti e dovranno scegliere da chi acquistarli”.

È ciò che ormai fa una moltitudine di realtà innovative, tra cui Coca-Cola, American Express e soprattutto Red Bull (che su questi strumenti scommette moltissimo da lungo tempo), oltre a numerose società italiane di grandi dimensioni. “Il brand journalism punta alla creazione di un messaggio in funzione della propria audience, per spingere un’idea marchio e non un prodotto, offrendo ai consumatori una visione complessiva sull’ecosistema in cui opera l’azienda e non la prospettiva del singolo acquisto”, si legge ancora in Media House. 

Un altro aspetto fondamentale è che “se il brand journalism è fatto sapientemente, molti lettori online possono – in un certo senso – dimenticare la presenza stessa della marca”. E questo non perché il marchio venga celato (al contrario, dev’essere sempre visibile), ma perché la qualità e l’interesse che i suoi contenuti generano sono tali da far perdere di vista il fatto che si stia leggendo qualcosa che viene creato con un fine non solo informativo, ma di promozione del brand. 

“Un focus che è poi [quello] su cui ha puntato Coca-Cola, cancellando quasi tutti i riferimenti pubblicitari all’interno del sito web (compresa la versione italiana), offrendo al visitatore una vera e propria rivista online. È l’informazione che annulla il marchio, dandogli però, di conseguenza, una visibilità maggiore”. Come si intuisce, non si tratta di un lavoro facile, soprattutto in un contesto – come quello italiano – ancora molto tradizionalista e soprattutto con l’ansia di ottenere risultati nel breve termine.

Una fretta che mal si concilia con i progetti di brand journalism, che invece lavorano per creare una relazione duratura e che proprio per questo richiede tempo. Può succedere, insomma, di comunicare “anche a pochi, magari solo a uno, all’inizio. Per poi arrivare a dieci, cento, diecimila e così via. Innescando i meccanismi di business su una vasta platea”, prosegue Michele Bosco.

Ed è proprio questa una delle difficoltà principali del brand journalism che vediamo in Italia: spesso i dipartimenti di comunicazione hanno fretta di mostrare i numeri raggiunti ai piani alti dell’azienda. Ma creare del brand journalism di qualità è qualcosa che richiede pazienza, risorse e che soprattutto può impiegare tempo prima di portare a risultati tangibili. Quando viene a mancare la pazienza, spesso si tende a ripiegare, a compromettere la qualità dei contenuti per generare rapidamente numeri più importanti. Numeri che però non servono a un’azienda il cui giornalismo di marca non ha, ovviamente, lo scopo di generare click. 

E così, la ragione stessa dietro la creazione di un progetto di brand journalism viene meno. Riusciremo anche in Italia a liberarci di alcuni pregiudizi e di alcuni atteggiamenti provinciali e imparare dai migliori esempi internazionali? Quale sarà l’azienda italiana che darà vita – con risorse, tempo e fiducia – alla sua versione di RealLife, il bellissimo magazine sostenuto economicamente, senza pretendere nulla in cambio, da Snapchat?

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[Fonte Wired.it]