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lunedì, Nov 04

Cosa si ottiene analizzando gli 11mila tweet della presidenza Trump


Il New York Times ha passato in rassegna il corpus di messaggi che il presidente degli Stati Uniti ha affidato alla sua piattaforma preferita, “una raffica di attacchi personali, offese e sbruffoneria”

(foto: Robert Alexander/Getty Images)

In un lungo articolo interattivo molto commentato in queste ore, il New York Times ha messo in fila tutti i messaggi postati su Twitter dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump: dal giorno dell’insediamento alla Casa Bianca sono – nel momento in cui l’articolo è stato pubblicato, ma nel frattempo il numero è di certo già lievitato – 11.390, e il quotidiano statunitense li definisce “una raffica di attacchi personali, offese e sbruffoneria”. Per la sua inchiesta, il Times ha parlato con 50 passati e presenti membri dell’amministrazione Trump e politici conservatori, oltre che con dirigenti e impiegati di Twitter.

L’attenzione per il profilo Twitter di Trump col passare degli anni è diventato uno dei dettagli distintivi di questa presidenza: Trump usa Twitter come un canale di comunicazione istituzionale – per quanto il registro dei suoi messaggi sia tutt’altro che istituzionale, in senso stretto – e ne ha fatto da tempo la sua piattaforma preferita per fomentare la base e colpire i suoi nemici.

Un po’ di dati

Nel 2017, il presidente Trump twittava in media 9 volte al giorno: nell’ultimo trimestre, però, il ritmo è triplicato: e così, a settembre, il commander-in-chief americano ha varcato la soglia dei 10mila tweet; a ottobre, invece, si segnala la sua settimana più prolifica di sempre: la seconda del mese, con ben 271 tweet.

Non troppo sorprendentemente, c’è una singola persona la cui immagine esce decisamente rafforzata dai tweet del presidente: è Trump stesso, che ha lodato sé stesso più di 2mila volte, stando all’analisi del Times.

Ma il feed di Trump è soprattutto fatto di aggressioni: il quotidiano ha trovato una qualche forma di attacco a qualcuno o qualcosa in più di metà dei suoi 11mila tweet (più di 2mila sono soltanto quelli dedicati a screditare l’indagine sul cosiddetto Russiagate, lo scandalo delle infiltrazioni russe nelle presidenziali del 2016 che l’hanno portato alla Casa Bianca). Nei primi dieci mesi del 2019, Trump ha lanciato nell’etere più attacchi di quelli che aveva fatto registrare in totale nel biennio precedente. I dati dicono inoltre che la grande maggioranza di questi messaggi viene postato al mattino presto e alla sera tardi, “quando il signor Trump si trova verosimilmente senza i suoi consiglieri strategici”.

(The New York Times)

I temi più popolari su cui Trump twitta per ottenere azione immediata sono l’immigrazione e il famoso muro al confine col Messico (1159 volte) e dazi e tariffe doganali (521). Ma Twitter, scrive il New York Times, è per Trump anzitutto uno strumento di una nuova diplomazia: l’inquilino della Casa Bianca ha “lodato dittatori più di 100 volte, mentre si lamentava quasi il doppio dei tradizionali alleati dell’America”.

United Tweets of America

L’uso di Twitter da parte di Trump ha reso quella che una volta era soltanto una piattaforma di comunicazione politica in un centro di potere capace di cambiare il volto e la prassi della politica americana: prendiamo quanto succedeva un anno fa, più o meno in questi giorni. A ottobre del 2018 le immagini della carovana di migranti da Honduras, Guatemala ed El Salvador facevano il giro del mondo, e Trump rispondeva – ovviamente – con un tweet: “I must, in the strongest of terms, ask Mexico to stop this onslaugh” (“devo chiedere con estrema fermezza al Messico di porre fine a questo attacco”) scriveva il presidente, minacciando poi di chiudere il confine statunitense col paese centramericano.

Da tempo i consiglieri di Trump gli suggerivano di non farlo: le ricadute economiche di una chiusura dei confini sarebbero state pesanti, e la logistica quasi impossibile. Ma il presidente ha aggirato ogni mite consiglio passando direttamente a Twitter, e causando un meeting d’emergenza a poca distanza dallo Studio Ovale. Quel singolo tweet è riuscito a comunicare all’intero governo americano una priorità di Trump: nei mesi successivi, l’intera amministrazione si è mossa per impedire alla povera gente di arrivare negli States.

A distanza di sei mesi, il segretario per la sicurezza nazionale Kirstjen Nielsen stava ancora cercando di far ragionare Trump sull’ipotesi di una chiusura totale del confine. Il presidente l’ha sollevata dal suo incarico, con un tweet.

Se, insomma, per Obama un tweet era la ciliegina sulla torta di una riforma portata a termine con successo, per Trump è l’inizio – unilaterale, quando non direttamente capriccioso – di un percorso legislativo.

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