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lunedì, Apr 26

Cosa succederà quando a garantire il Pnrr non ci sarà più Draghi?



Da Wired.it :

Per evitare che il piano nazionale per i fondi europei finisse sotto attacco da Bruxelles Draghi ha letteralmente fatto scudo col suo corpo: chi garantirà per l’Italia l’anno prossimo?

La vera preoccupazione non sta tanto nel Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che oggi il presidente del Consiglio Mario Draghi illustrerà alla Camera e domani al Senato. Si tratta di un piano monumentale da 191,5 miliardi europei e una trentina di fondo complementare in deficit (e come, altrimenti?) messo sul piatto per infilare anche quello che non è entrato nel programma principale. Sul quale ovviamente alcune categorie o certi settori hanno qualcosa da ridire, perché tutto si può sempre fare meglio, ma che se davvero andasse in porto al 100% cambierebbe volto al paese.

Al netto delle insoddisfazioni di questo o quell’ambito. La questione reale, sul cui l’ultimo miglio il piano ha rischiato infatti di arenarsi, è politica: chi garantirà che quei soldi vengano come si dice “messi a terra” nel modo giusto, accompagnati dalle riforme epocali che Bruxelles si aspetta da Roma (burocrazia, fisco, PA, giustizia, concorrenza)? Next Generation Eu non può permettersi di fallire. E visto che il principale beneficiario dell’operazione è l’ non può permettersi di fallire l’Italia nella sua gestione.

Il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi (foto: Palazzo Chigi)
Il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi (foto: Palazzo Chigi)

Fra prestiti a tassi estremamente vantaggiosi e risorse sostanzialmente a fondo perduto ci sono quasi 50 miliardi di euro per la digitalizzazione, 32 per l’istruzione e la ricerca, una settantina in mano al superministero della transizione ecologica di Roberto Cingolani. E ancora 22,3 sull’inclusione e la coesione, una ventina sulla sanità e trenta sulle infrastrutture. Sei missioni estremamente articolate, a onor del vero in gran parte confermate dal precedente piano predisposto dal governo Conte II, che avvolgono il paese, e i suoi punti deboli, su quasi ogni fronte: dalla banda larga all’alta velocità ferroviaria al Sud, dalla moltiplicazione dei posti negli asili nido al sostegno alla produzione e alla ricerca dell’idrogeno passando per il dissesto idrogeologico, il potenziamento della rete territoriale di assistenza sanitaria e la telemedicina, il riciclo dei rifiuti plastici al 65%, le politiche attive del lavoro e le pari opportunità. Quasi un libro dei sogni, per un paese dove tutto è sempre molto lento, difficile, contraddittorio, ostaggio di cortocircuiti burocratici e soprattutto degli avvicendamenti politici.

Questo l’aspetto che più impensierisce la Commissione Europea. Quei progetti devono procedere di pari passo allo snellimento della giustizia civile e penale, alla semplificazione degli appalti, alla concorrenza. In ballo ci sono 750mila posti di lavoro potenziali e oltre 3,6 punti percentuali di Pil entro il 2026 (ma per il governo saranno molti di più, con numeri a doppia cifra da miracolo economico). Da una parte un azzeramento degli anni di crisi, dall’altro un salto avanti in grado di svecchiare il sistema italiano, cronicamente agli ultimi posti in Europa per produttività, concorrenza, istruzione e digitalizzazione. Di nuovo: se oggi basta un Mario Draghi che mette tutto il suo peso e la sua credibilità sul maxiprogetto, regalando un pezzo di quella credibilità anche al paese (che ne ha un bisogno enorme) chi ci sarà non in un futuro prossimo ma, semplicemente, nel 2022 a palazzo Chigi?

Per evitare che il nostro Pnrr, battezzato “Italia domani”, finisse subito sotto attacco da Bruxelles Draghi ha letteralmente fatto scudo col suo corpo (politico, s’intende). E potrà farlo fino al prossimo anno, gestendo con attenzione le risorse in arrivo fin dall’estate. La Commissione ha infatti un paio di mesi di tempo per dare il suo giudizio sul Pnrr: in caso positivo dovremmo ricevere il 13% dei fondi, circa 24 miliardi, entro settembre. Il resto, invece, arriverà in base allo stato di avanzamento dei diversi progetti inclusi nelle sei missioni. Ma cosa accadrà se Draghi dovesse essere eletto al Quirinale il prossimo gennaio, in un ruolo certo prestigioso, per certi versi di maggiore garanzia ma necessariamente meno politico, fuori dal pragmatismo che invece ne contraddistingue l’azione esecutiva? E cosa accadrebbe se invece dovesse rimanere a palazzo Chigi ma, dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato, assistere magari all’esplosione della maggioranza arlecchino che lo sostiene, con la Lega che già ora fatica a rimanerci dentro?

In altre parole, chi si farebbe garante non solo dei fondi ma anche di tutto il resto del lavoro di riforme che il Parlamento, necessariamente stimolato dal governo, dovrà condurre? Non siamo neanche riusciti ad approvare una nuova legge elettorale, potrà il “paese fragile” – come l’ha definito lo stesso Draghi – gravato da fratture di genere, territoriali e generazionali irrisolte da decenni e da un debito che sfonda il 160% sul Pil trovare la forza e la rispettabilità politica per ribaltare in un paio di anni l’assetto istituzionale in ambiti che a molti appaiono perfino irriformabili? Forse sì, finché ci sarà Draghi che era l’italiano più competente e rispettabile a cui affidare le redini di questo passaggio storico. Difficile che abbia il tempo per qualcosa di più di un battesimo per l’Italia del domani.

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[Fonte Wired.it]