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lunedì, Lug 24

Coscienza, perché non ne sappiamo ancora abbastanza | Wired Italia



Da Wired.it :

È il 1998 e siamo a Brema, in Germania: al termine di una conferenza sulla coscienza, il neuroscienziato Christof Koch scommette con il filosofo David Chalmers che, entro venticinque anni, si sarebbero finalmente scoperti i meccanismi e i neuroni specifici con cui il cervello produce quello stato grazie al quale una persona sente tutte le proprie esperienze. In palio una cassa di vino e, ovviamente, la soddisfazione di essere riusciti a carpire come funzioni la cosiddetta “esperienza soggettiva della mente”. Gli anni sono passati, le metodiche di ricerca e le teorie sulle basi neurali della coscienza si sono moltiplicate, ma per il momento è Chalmers ad aver vinto la scommessa: come riporta un articolo comparso recentemente su Nature.com, durante la riunione annuale dell’Associazione per lo studio scientifico della coscienza tenutasi lo scorso giugno a New York, entrambi i ricercatori, che nel frattempo sono diventati tra i principali esperti mondiali in tema di coscienza, hanno affermato pubblicamente che si tratta di una ricerca ancora in corso. In particolare, infatti, durante l’incontro a New York sono stati presentati i risultati – non ancora sottoposti a revisione tra pari – di uno studio che ha testato due delle teorie della coscienza al momento più accreditate e che però non hanno confermato nessuna delle due in maniera univoca. Pertanto, non si può ancora dire di aver individuato i meccanismi grazie ai quali i neuroni del nostro cervello producono lo stato di coscienza. Tuttavia, la partita è ancora aperta: come sottolinea Chalmers, fresco di “vincita”, nel campo ci sono stati e continuano a esserci numerosi progressi, mentre nel frattempo Koch ha rilanciato la posta in gioco, proponendo una nuova scommessa.

Un problema di vecchia data

Prima di addentrarci nei dettagli della questione, facciamo un passo indietro. Che cosa indagano i ricercatori che si occupano di coscienza – o meglio, si può dare una definizione di coscienza? Come riporta una review della letteratura scientifica pubblicata su Nature reviews neuroscience, a firma proprio di Koch, essere coscienti significa che si sta vivendo un’esperienza: è sperimentare “com’è”, per esempio, il vedere un’immagine, sentire un suono, formulare un pensiero o provare un’emozione. In particolare, sebbene le nostre esperienze di veglia cosciente solitamente abbiano come oggetto il mondo che ci circonda, continuiamo a essere coscienti anche quando non facciamo caso a stimoli esterni, oppure, durante il sonno, se sogniamo. D’altro canto, la coscienza svanisce solo durante il sonno senza sogni o in anestesia generale: in quei momenti tutto scompare dalla nostra prospettiva e non sperimentiamo più nulla. Si tratta – forse – di una delle caratteristiche che ci definisce in quanto esseri umani (anche se, a determinati livelli, la coscienza sarebbe propria anche di diversi altri animali); se, per esempio, anche un robot può rilevare inconsciamente condizioni esterne come colore, temperatura o suono – ha affermato qualche anno fa a Nature.com Matthias Michel, filosofo della scienza dell’Università della Sorbona di Parigi – la coscienza descrive la sensazione qualitativa associata a tali percezioni, insieme a processi più profondi di riflessione, comunicazione e pensiero. Non stupisce, quindi, che l’indagine sulla natura e l’origine della coscienza sia da sempre un tema molto caro ai ricercatori.

La genesi della scommessa

Che l’esistenza della coscienza fosse un enigma di lunga durata, infatti, non è difficile immaginarlo, ma le basi della scommessa del 1998 vengono poste all’inizio degli anni Ottanta, quando un gruppo di neuroscienziati e biologi molecolari (tra cui lo stesso Koch e anche Francis Crick, noto per aver contribuito, trent’anni prima, alla scoperta della struttura del dna) iniziano a indagare i meccanismi nel cervello associati all’elaborazione cosciente delle informazioni. In particolare, gli scienziati cercavano i cosiddetti “correlati neurali della coscienza”, ovvero l’insieme minimo di eventi che devono avvenire nello stesso momento all’interno del cervello (a carico di uno specifico gruppo di neuroni o di una specifica struttura cerebrale) perché si abbia un’esperienza cosciente: insomma, una sorta di firma minima della coscienza a livello delle strutture cerebrali. La ricerca su questi meccanismi ebbe un’enorme spinta alla fine del secolo scorso soprattutto grazie ai progressi tecnologici nell’ambito dello studio del cervello: dalla crescente disponibilità di tecniche come la risonanza magnetica funzionale, che misura i piccoli cambiamenti nel flusso sanguigno che si verificano con l’attività cerebrale, all’elettroencefalografia, fino ad arrivare all’optogenetica, che permette di stimolare specifici circuiti neuronali nel cervello di animali in determinate condizioni, studiare il cervello da un punto di vista biologico e funzionale diventava sempre più agevole.

Questi avanzamenti scientifici e tecnologici rendevano i ricercatori che si occupavano della coscienza piuttosto ottimisti: come riporta il giornalista scientifico Per Snaprud in un articolo del 2018 pubblicato su New Scientist, i correlati neurali di coscienza erano proprio l’argomento della presentazione di Koch alla conferenza di Brema del 1998. In particolare, in quel momento le strutture e gli eventi neurali considerati attori chiave nei processi biologici della coscienza erano soprattutto tre: una popolazione di neuroni della corteccia visiva (la porzione esterna del cervello deputata all’elaborazione delle informazioni visive) capaci di emettere scariche elettriche a bassa frequenza (nell’ordine di 30-70 hertz) in maniera sincronizzata e ritmica, un tipo particolare di neuroni della corteccia cerebrale chiamate cellule piramidali, normalmente implicate nei processi cognitivi, e il cosiddetto claustrum, un sottile foglio di cellule al di sotto della corteccia cerebrale interconnesso a essa, che si pensava potesse svolgere un ruolo fondamentale nell’integrazione delle informazioni che portano all’esperienza cosciente. Queste ipotesi derivavano proprio dai primi, incoraggianti risultati ottenuti dalla ricerca sistematica sui correlati neurali della coscienza: considerando i progressi tecnologici dell’epoca, secondo Koch sarebbe stato semplice, in un futuro molto vicino, trovare un piccolo insieme di neuroni caratterizzato da poche e specifiche proprietà intrinseche (come un certo schema di attivazione elettrica o l’espressione di determinati geni in grado di regolare la produzione di vari neurotrasmettitori) che fosse correlato direttamente con la produzione dello stato di coscienza; il tutto, ovviamente, entro 25 anni. Eppure, le cose non sono andate come lo scienziato si auspicava.

Dalle proprietà dei neuroni alle teorie della coscienza

Come sottolinea un recente articolo pubblicato su Nature reviews neuroscience, infatti, sebbene la ricerca sui correlati neurali della coscienza sia stata estremamente utile per aver fornito un linguaggio e metodologie comuni per i ricercatori che indagano questo campo, nel corso degli anni essa ha presentato diversi limiti, soprattutto per la difficoltà nel distinguere ciò che può essere considerato una caratteristica intrinseca del processo cosciente da condizioni che prescindono lo stato di coscienza stesso. Di conseguenza, negli ultimi decenni è aumentato l’interesse nello sviluppo di teorie della coscienza, che possano offrire spiegazioni più approfondite al riguardo e che si concentrino, più che sulle caratteristiche delle singole cellule, sui rapporti tra le reti di neuroni all’interno del cervello: al momento, tra le più accreditate vi sono la cosiddetta teoria dello spazio di lavoro neuronale globale e la teoria dell’informazione integrata.

Vediamole più nel dettaglio: la teoria dello spazio di lavoro neuronale globale suggerisce che ciò che sperimentiamo come stato cosciente in un dato momento, in realtà è la trasmissione e l’amplificazione delle informazioni attraverso una rete interconnessa di aree cerebrali comprese tra la corteccia cerebrale e il talamo. In particolare, secondo questa teoria, se un segnale proveniente dall’esterno riesce ad attivare una particolare area (chiamata appunto spazio di lavoro neuronale globale e costituita da neuroni posizionati soprattutto nella corteccia pre-frontale, che trasmettono informazioni attraverso connessioni a lungo raggio), esso diventa un’informazione oggetto di consapevolezza e inizia a far parte dell’esperienza cosciente. Di contro, altre teorie partono da un differente approccio, suggerendo che la coscienza sia il risultato dell’informazione che viene combinata in modo sinergico, superando la somma delle singole parti anatomiche e funzionali. La teoria dell’informazione integrata appartiene a questa visione, in quanto propone che la coscienza sia una “struttura” nel cervello formata da un tipo specifico di connettività neuronale, che rimane attiva finché si verifica una certa esperienza. Secondo questa teoria, il grado di coscienza di qualsiasi sistema può essere misurato da un parametro fisico (detto phi), mentre dal punto di vista anatomico sarebbe correlata alla coscienza la parte posteriore della corteccia cerebrale.

I risultati dello studio e il futuro

L’obiettivo principale delle ricerche in questo ambito, alla fine, è quello di avere una teoria della coscienza validata da un punto di vista empirico: eppure, man mano che si accumulano dati sperimentali, anche grazie alle tecnologie che decenni fa avevano guidato gli studi sui correlati neurali della coscienza, sembra che queste teorie si stiano moltiplicando. Tutto questo ha portato i ricercatori a diversi tentativi di integrazione, ma anche allo sviluppo delle cosiddette “collaborazioni contraddittorie”, in cui i sostenitori di teorie concorrenti concordano in anticipo un esperimento i cui risultati dovrebbero avvalorarle o minarle. È quanto accaduto in questo caso: per far progredire la ricerca sulla coscienza, infatti, la Templeton world charity foundation ha promosso un progetto di collaborazione contraddittoria in cui i sostenitori della teoria dell’informazione integrata e quelli dello spazio di lavoro neuronale globale hanno impostato e preregistrato un protocollo di studio in grado di mettere alla prova entrambe le teorie. In particolare, sei laboratori diversi e indipendenti hanno eseguito gli esperimenti messi a punto dagli scienziati, che prevedevano l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, la magneto-elettroencefalografia e l’elettroencefalografia per misurare l’attività delle varie aree del cervello legate all’esperienza cosciente della visione.

Per quanto riguarda la teoria dell’informazione integrata, ciò che abbiamo osservato è che in effetti le aree nella corteccia posteriore contengono informazioni in modo sostenuto“, afferma a Nature.com Lucia Melloni, neuroscienziata del Max Planck Institute for Empirical aesthetics di Francoforte, in Germania, che ha preso parte allo studio. Nonostante ciò sembri suggerire che la struttura postulata da questa teoria esista, i ricercatori non hanno trovato prove di una sincronizzazione prolungata tra le aree del cervello, come era invece previsto. Anche la prova della teoria dello spazio di lavoro neuronale globale ha dato risultati contrastanti, anche più marcatamente dell’altra: in particolare, gli scienziati hanno trovato che sì, alcuni aspetti della coscienza potevano essere individuati nella corteccia prefrontale, come teorizzato, ma non tutti; inoltre la trasmissione di informazioni postulata dalla teoria è stata individuata solo all’inizio di un’esperienza e non anche alla fine, come invece era stato teorizzato.

Insomma, gli scienziati dovrebbero ripensare i meccanismi alla base delle teorie della coscienza proposti alla luce sia di questi nuovi risultati, sia degli altri esperimenti che sono in corso al momento. In effetti, gli studi sulla coscienza proseguono: sempre nell’ambito del progetto della Templeton world charity foundation, infatti, Koch starebbe testando le due teorie nel cervello di modelli animali, mentre Chalmers attualmente starebbe valutando altre ipotesi di coscienza. E la scommessa? Incalzato da Nature.com, Koch ha ammesso a malincuore di aver perso (onorando anche la parola data e regalando al suo avversario una cassa di vino proprio durante l’incontro a New York), ma non demorde.



[Fonte Wired.it]