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sabato, Set 07

Cos’è la Brexit, se non il grande romanzo di una guerra civile?


E non è l’unico: tanti libri recenti (non solo di autori britannici) riflettono sui conflitti del nostro mondo, soprattutto quelli interni alle città, tra i centri e le periferie. Qualche titolo che fareste meglio a non perdervi

(foto: TOLGA AKMEN/AFP/Getty Images)

A seguire i recenti colpi di scena della politica britannica, c’è da pensare che ancora per molto tempo gli effetti tragici e grotteschi della Brexit peseranno anche sui libri che (non solo gli inglesi) leggeranno nei prossimi anni. Non è forse Boris Johnson una figura tragica e grottesca degna ad esempio di uno degli strampalati romanzi surreali di Max Porter (penso al recente Lenny, ancora inedito da noi, che gioca proprio sull’essere una favola macabra ambientata in un’Inghilterra terribilmente qualsiasi)?

Esiste però un vero e proprio romanzo della Brexit? Forse è più corretto riferirsi a romanzi e libri che raccontano i malanni di una società europea divisa, che sempre di più si affacciano ai bordi di nuove guerre civili o divisioni insanabili, spesso legate a condizioni sociali aggravate dalla non lontanissima crisi economica del 2008, dalle disparità tra periferie sempre più abbandonate e città sempre più care e gentrificate.

Sì, stiamo parlando di romanzi europei, non solo inglesi, perché in fondo ogni nazione è divisa a modo proprio. Il Regno Unito, si sa, fa storia. Ma in Inghilterra ad esempio, la scozzese Ali Smith sta scrivendo un bellissimo ciclo di romanzi stagionali (in Italia sono usciti Autunno e Inverno, per Sur), dove i protagonisti si muovono come fragili maschere nelle loro beghe quotidiane, sormontati da un’atmosfera di cupezza irrazionale e nazionale alle quale solo la quotidianità ridona luce (come nel delicato rapporto tra un ottantenne morente e la giovane studentessa in Autunno). La gente inglese, nei romanzi della Smith – la pancia del paese, si direbbe da noi – è un manzoniano e irascibile soggetto amorfo che quando viene chiamato a votare fa quasi sempre danni, e quando viene chiamato a dare opinioni, non solo sui social, tocca vertici di razzismo e fascismo assoluti: anything goes, ma come direbbe Beckett “Worstward Ho”, (cioé: “Avanti-peggio!”).

Qualcuno ha definito “romanzi seri sulla Brexit” le opere della Smith, forse più di quel programmatico Middle England di Jonathan Coe (Feltrinelli, 2018), romanzo tragicomico e generazionale che segue le vicende nazionali dal 2010 al 2018, seguendo allo stesso tempo le relazioni tra pubblico e privato della famiglia Trotter. Oppure potremmo menzionare il recentemente uscito Le circostanze (Astoria, 2019) di Amanda Craig, da noi passato in sordina. Lì è la campagna di Devon, povera, conflittuale, a essere rappresentata in tutta la sua rabbia pro-Brexit, nelle distanze e diffidenze di classe vissute da una coppia in crisi che si trasferisce in campagna pensando di risolvere qualche problema dalla oramai troppo cara Londra. Facile dire come finirà – presto – l’idillio… 

Ma andiamo anche oltre la Manica, verso la Francia: la Brexit si invererà nei recenti conflitti causati dal movimento assai eterogeneo dei gilets jaunes. Ci sarebbe così da citare, senza volerlo far diventare il loro portavoce, Édouard Louis, che ha libri in grado di rappresentare la rabbia violenta della classe medio-bassa francese nei confronti di un establishment sempre più sordo e arricchito. Per citarne solo due: Storia della violenza (Bompiani, 2016) un racconto autobiografico in cui lo stupro subito a opera di un immigrato algerino viene però usato a giustificato da un carnefice che è anche vittima di una Francia inospitale e ghettizzata (e che forse qualche trauma del passato – anche algerino – deve ancora risolverlo.) Ma è con Chi ha ucciso mio padre (sempre Bompiani), che Louis riprende il teorema già inscenato nel precedente per raccontare di un padre xenofobo e omofobo: lui può sembrare un uomo riprovevole, ma alla fine è vittima di una politica che stritola le periferie, i lavoratori in fabbrica come lui, e poi quasi si scioccherà se si rivoltano in onde che spesso sono nere e dalla bocca schiumata.  

In Spagna, la guerra civile bisognerebbe certo scriverla innanzitutto con la maiuscola (e magari ripassarla attraverso uno degli ultimi usciti sul tema, Incerta gloria di Joan Sales, pubblicato nel 2018 da Nottetempo). Ovviamente si dovrà menzionare Fernando Aramburu che dopo il successo del romanzo Patria (Guanda, Premio Strega Europeo, e di recente molto acclamato anche nel mondo anglosassone) ritorna ancora una volta sulle tematiche ai lui care legate al conflitto basco – raccontato dal punto di vista della famiglia e dei legami personali come unici spiragli di moralità in mezzo all’orrore – con il libro di racconti appena tradotti sempre da Guanda, Dopo le fiamme. Su territori simili (cioè baschi), visto dal punto di vista di una bambina difronte ad una realtà dilaniata da bombe e assassinii, anche l’interessante esordio di Edurne Portela, Meglio l’assenza, portato in Italia questo marzo da Lindau.

Per capire però davvero il disorientamento di una Spagna che torna costantemente a patti con il suo passato forse varrebbe la pena di leggere il recente La Spagna vuota (Sellerio, sottotitolo in spagnolo: “viaggio in un paese che non è mai stato tale”) di Sergio Del Molino: un’indagine a metà tra reportage e racconto intimo di una nazione iberica disabitata, o meglio dove lo spopolamento endemico delle vaste campagne ha creato da un lato il conflitto metropolitano acceso e dall’altro uno spettrale benché magico vuoto nell’identità spagnola stessa. 

Dalla Spagna andiamo al nostro paese per necessità (e perché Del Molino cita l’esempio del Sud italiano come altrettanto spopolato spazio.). Sebbene Umberto Saba, in tempi di pacificazione post-bellica (era il 1946) scrivesse che: “Gli italiani sono l’unico popolo, credo, che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio”, non si vedono all’orizzonte romanzi che trattino un vero e proprio conflitto sociale del calibro di una guerra civile, ma forse varrebbe la pena prendere in considerazioni i libri feroci e distopici che l’editor Michele Vaccari sta proponendo per Chiarelettere nella collana Altrove. L’ultimo, di Paolo Zardi, appena uscito, L’invenzione degli animali, racconta di un mondo post-democratico dove l’economica ha inglobato la morale e la vita.

E gli americani staranno forse a guardare? Sorvolando sulle Trump-novels che sicuramente sono arrivate e arriveranno – tra le quali si annuncia il nuovo romanzo di Salman Rushdie, l’epopea satirica della terra dell’ Età-Dove-Tutto-Può-accadere Quichotte: è uscito in America in questi giorni – mi permetto di citare un volume che ancora non è apparso in Italia. Lo ha curato qualche anno fa John Freeman, ex-editor di Granta, e oggi a guida di una delle riviste letterarie più importanti del mondo, Freeman’s (uscito il numero del titolo Potere da poco, dal suo editor Black Coffee). Si chiama, traducendo il titolo, Storie di due Americhe: racconti di iniquità in una nazione divisa, e raccoglie racconti, saggi, poesie di autori alcuni molto noti (Joyce Carol Oates, Edwidge Danticat, , Karen Russell, tra gli altri), che nei loro modi diversi raccontano gli Stati Uniti piagati dal conflitto sociale, le disuguaglianze e le differenze di classe. Cosa che, dal paese del Sogno americano, è una presa di coscienza tardiva benché importante di qualcosa per troppo tempo censurato: l’essere in fondo – persino loro – più che altro Stati Divisi d’America.

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