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venerdì, Nov 13

Covid-19, come stanno medici, infermieri e personale sanitario?



Da Wired.it :

Stanchi, provati, resistono alla seconda ondata, per dovere e passione. Ma quando Covid non ha colpito con le infezioni, ha lasciato tracce difficili da cancellare sugli operatori sanitari

Salutati come eroi, applauditi, che dormono nella ambulanze, abbandonati sulle scrivanie, imprigionati nelle tute protettive, con i segni degli occhiali che non vanno via neanche una volta tolti. Abbiamo avuto diverse immagini di chi lavora sul campo contro Covid-19, a volte accompagnate dalle vive testimonianze dei loro protagonisti, che raccontavano cosa significava e cosa significa lavorare ai tempi del coronavirus in un ospedale. Spesso veicolo di appelli, invitando la popolazione a stare a casa, a non minimizzare. Soprattutto nelle zone più colpite durante la prima ondata dell’epidemia in Italia. Sottoposti a turni massacranti, in pochi, in meno di quanti ne servirebbero, con meno letti e strumenti di quanto ce ne sarebbe bisogno. Tanto nei giorni scorsi i medici hanno lanciato un appello per un nuovo lockdown totale per scongiurare il collasso dei sistemi sanitari.

“Serve a far respirare gli ospedali”, ha ribadito a Wired Roberto Monaco, segretario generale della Federazione nazionale degli ordini dei Medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo). “Stiamo lavorando, come sempre, per salvaguardare il diritto alla salute, per passione e senso del dovere, ed è per questo che non ci piace essere chiamati eroi”. Ma rispetto alla prima ondata, quando sono stati colpiti dalla sprovvista, oggi Monaco non nasconde che si lavora con un disagio in più. “Nella prima ondata siamo stati colpiti da un vento che ci ha gelato, abbiamo lavorato senza dispositivi di protezione individuale a sufficienza, abbiamo avuto morti per questo, siamo stati considerati untori, ma anche oggi che continuiamo ad andare in guerra, ci rendiamo conto che alcune cose che potevano essere fatte non lo sono state. Sentiamo addosso rispetto allora un disagio in più, una rassegnazione perché nulla cambia, e tutti gli operatori cominciano a essere stanchi”. Provati da tutto quello che hanno visto, fatto, e che stanno ancora vedendo. Perché anche se avere a che fare con dolore e malattia è lavoro quotidiano per gli operatori sanitari, la pandemia da Covid-19 è qualcosa che non ha precedenti. “Non è uno sprint, è una maratona, avvertivano solo qualche mese fa gli esperti dell’Oms, mettendo in guardia dall’enorme sforzo fisico e mentale che la gestione dell’emergenza avrebbe loro richiesto nei mesi a seguire. E che ha già visto nascere progetti di aiuto a sostegno del personale sanitario direttamente coinvolto nell’emergenza, contro il rischio di stress e burnout, a tutela di chi cura. “Sicuramente affronteremo questi aspetti anche in futuro, con più calma, ma oggi dobbiamo lavorare, abbiamo delle priorità”, riprende Monaco.

La letteratura ha già cominciato, e da tempo, a interessarsi anche di questo aspetto della pandemia cercando di comprendere l’impatto di Covid-19 sulla sfera psicologica ed emotiva dei lavoratori in prima linea, così come l’efficacia di programmi di supporto. Riconoscendo l’esistenza di fattori che inevitabilmente cambiano le carte in tavola, anche per chi fa questo di mestiere, per dovere, e che aumentano il rischio di burnout. Decisioni da prendere, che fanno la differenza tra la vita e la morte, la paura di ammalarsi, di portare a casa il maledetto virus e di contagiare anche i propri cari e gli altri, il fastidio dei dispositivi di protezione indossati per ore, la paura che non bastassero, orari e turni sballati, la corsa contro il tempo, la mancanza di organizzazione, pranzi saltati chiusi nelle tute e imprigionati nel timore che persino un pasto o una visita in bagno si trasformassero in un’occasione di contagio per qualche mossa sbagliata, i riposi disturbati, l’ansia, i pianti, la rabbia a volte, i pazienti per cui spesso si è non solo la faccia di cura e terapia, quando possibile, ma anche l’unico sostegno, l’unico contatto con il mondo esterno, il ponte con i famigliari a casa. C’è tutto questo nei racconti di medici e infermieri impegnati nell’emergenza. Tutti diversi e tutti simili, come quelli restituiti nelle pagine di Racconti di cura che curano, il libro a sostegno del progetto #NoiConGliInfermieri della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche (Fnopi), per gli infermieri colpiti dalla pandemia, nei percorsi di cura e riabilitazione psico-fisica. Eppure, scriveva Simona interpretando il pensiero di molti, “l’unica possibilità che ho è quella di resistere.

Una resistenza che nella prima ondata ha fatto la differenza, confida a Wired.it Beatrice Mazzoleni, segretaria nazionale Fnopi: “Ad aprile abbiamo risposto in un modo che era impensabile, siamo stati capaci di trovare risorse umane, forze fisiche e mentali, ingegno e fantasia, perché a volte anche di questo si è trattato, in assenza di organizzazione e dispositivi di protezione individuali, impensabili. E a fine maggio, passata la fase più dura, ci siam guardati in faccia e ci siamo detti: ci ha tenuto insieme l’adrenalina. Oggi, la situazione è cambiata, continua Mazzoleni: “Abbiamo vissuto un’estate di preoccupazione, non abbiamo mai pensato che non ci sarebbe stata una seconda ondata, quello che speravamo piuttosto era che arrivasse il più tardi possibile, considerando la stanchezza accumulata, la frustrazione perché sentivamo di non avere più quell’adrenalina che ci ha tenuti su la scorsa primavera e il timore, per chi lo aveva, come me, già vissuto al Nord, che lo stesso potesse accadere anche nel resto del paese”. Come poi è accaduto, portando a galla tutte le falle del sistema sanitario.

Utilissimo ma non privo di falle, anzi. “Ad aprile l’emergenza aveva stravolto solo alcuni pezzi del nostro territorio abbiamo potuto chiamare i colleghi dal Sud. Oggi questo è qualcosa che non possiamo più fare”. Sì, rispetto a qualche mese fa, continua Mazzoleni, conosciamo il nemico, ma contiamo su un popolo di professionisti già feriti e stanchi: “Ci rendiamo conto che saremo una generazione ferita. Questo ci impegna ancora di più a cercare dei residui di forza e di equilibrio, ma si sono innescati dei meccanismi psicologici particolari, che in alcuni casi ci portano a isolarci, per cercare di scappare”. Alcune reti di supporto psicologico a sostegno dei professionisti sanitari sono già state allestite, e la stessa Fnopi ha avviato iniziative di raccolta fondi per rimborsare percorsi di psicoterapia dove necessari. “Ma sono per lo più sistemi che cercano di rattoppare qualcosa che sistematicamente non c’è, perché non c’è stata una sensibilizzazione reale su questi temi – riprende Mazzoleni – Sappiamo da molte ricerche che i professionisti sanitari hanno bisogno di questo tipo di supporto e si deve fare in modo che siano previste questo tipo di risorse , soprattutto per i prossimi anni, quando c’è il rischio che tutto questo impatti sulla rete di assistenza. Il vaccino, quando arriverà, non manda via i ricordi: va cambiata l’organizzazione, pensare a noi, agli operatori sanitari come persone”.

In altri casi, pochi, prosegue la segretaria nazionale Fnopi, qualcuno non ce l’ha fatta: ci sono stati licenziamenti, e non mancano racconti, nemmeno tra i medici che denunciano stanchezza, rabbia, mancanza di organizzazione che sarebbe stata auspicabile in questi mesi di attesa. E non solo: “In questi anni abbiamo perso migliaia di unità di personale, eravamo già con un esercito già dimezzato, già in crisi con le risorse presenti senza l’emergenza”.

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[Fonte Wired.it]