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sabato, Ott 23

Covid, cosa sappiamo sulla “super-immunità” e perché studiarla



Da Wired.it :

L’immunità ibrida, quella data dall’esposizione al coronavirus e al vaccino, sembra potente e ad ampio spettro. Capirla potrebbe aiutare a ottimizzare i piani vaccinali

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(foto: Unsplash)

Il tema dell’immunità da coronavirus, come abbiamo visto in quasi due anni ormai di pandemia, è estremamente complesso. Le discussioni intorno a durata, forza, natura dell’immunità acquisita dopo infezione o vaccinazione hanno ripercussioni importanti in termini di diffusione del virus, rischio di re-infezione e politiche vaccinali. Basti pensare alla questione delle vaccinazioni di chi ha già avuto l’infezione: meglio completare il ciclo vaccinale, in caso di doppia dose? Aggiungono qualche elemento su cui i riflettere i risultati a cui sono giunti alcuni ricercatori di recente in tema di immunità. Mediaticamente è stata ribattezzata “super immunità”, occasionalmente anche immunità “superumana”, indica la risposta scaturita dalla combinazione di infezione e vaccinazione, che sarebbe particolarmente potente. Studiarla potrebbe tornare utile mentre si sta lavorando alla somministrazione delle terze dosi.

Vaccino, Covid-19 e super immunità

A rilanciare il tema della super immunità è un pezzo apparso sul sito di Nature in questi giorni, agganciandosi a un articolo pubblicato sulla stessa rivista un mese fa. Secondo l’articolo, perché il coronavirus scappi agli anticorpi che si ritrovano nel sangue di una persona infettata o vaccinata, dovrebbe accumulare almeno venti mutazioni in punti sensibili. Non una cosa facilissima insomma. Detto in altre parole: l’immunità sviluppata da vaccini e malattia nel complesso è abbastanza buona, per ora. Ma la ricerca va oltre, individuando una sorta di super immunità.

Più nel dettaglio il team della Rockefeller University ha fatto questo: ha costruito un coronavirus “finto”, polimutante, con venti tra le peggiori mutazioni possibili sulla proteina spike. E ha cercato quindi di capire quale sia stata la risposta immunitaria nei vaccinati o infettati nei confronti di questa forma polimutante.

Con tutte queste mutazioni (tante), effettivamente, il virus (falso) riesce a bucare la risposta immunitaria, pur rimanendo “vulnerabile”, spiegano i ricercatori, alle risposte anticorpali delle persone che erano state infettate e avevano ricevuto il vaccino. Un’immunità “incredibilmente vasta”, così Paul Bieniasz, a capo del paper, commenta quanto osservato per chi ha avuto Covid-19 ed è stato vaccinato, che lascia supporre una protezione non solo contro le varianti in circolo ma potenzialmente anche contro altre che potrebbero presentarsi in futuro. Cosa significa e come si potrebbe spiegare tutto questo?

Un sistema immunitario in evoluzione

Il significato va ricercato nel meccanismo di funzionamento del sistema immunitario e potrebbe avere ripercussioni importanti per la gestione delle campagne vaccinali, in particolar modo dei richiami. Infatti, quanto osservato ora si riaggancia a un’altra scoperta, annunciata a inizio anno dallo stesso team. Ha a che fare con l’evoluzione e il funzionamento del nostro sistema immunitario. Gli scienziati infatti hanno osservato che anche mesi dopo l’infezione gli anticorpi contro il coronavirus, sebbene diminuiscano in numero, continuano a evolversi, o meglio, si evolvono le cellule che li producono (i linfociti B), di fatto aiutando l’organismo a rendersi pronto a una eventuale ri-esposizione, come vi abbiamo raccontato.

La somministrazione del vaccino (e quindi lo sviluppo della cosiddetta immunità ibrida, identificando quella appunto che deriva da infezione naturale e vaccinale) non farebbe che potenziare questo meccanismo, spiegano oggi, allargando e affinando la risposta anticorpale, e aumentando anche la capacità del sistema immunitario di rispondere alle varianti (come suggerito da un altro studio simile sul tema risalente a pochi mesi fa e dallo stesso team della Rockefeller University). Un effetto maggiore appunto in chi è stato vaccinato dopo la malattia rispetto a chi è stato vaccinato senza aver contratto Covid-19, probabilmente anche perché l’esposizione all’infezione genera anticorpi diversi contro la proteina spike e più in generale contro altri antigeni virali.

Per usare le parole di Shane Crotty del La Jolla Institute for Immunology in una perspective su Science, l‘immunità ibrida potrebbe essere vista come una pianta ibrida, la risultante di due linee (immunità naturale e da vaccino) che combinate insieme hanno un effetto sinergico, e fanno crescere la pianta che ne deriva meglio, più forte. Per effetto combinato di diversi componenti del sistema immunitario: le cellule B da una parte sì, che maturano ed evolvono nel tempo, ma anche dei linfociti T, che contribuiscono, tra l’altro, proprio a potenziare la risposta dei linfociti B e la produzione anticorpale.

Ma, ricorda ancora Nature, non è detto che qualcosa di analogo non si verifichi anche per le persone che sono state vaccinate senza aver avuto la malattia (che rappresenta sempre un rischio, a differenza dei vaccini). Questi pazienti infatti sarebbero stati seguiti finora mediamente per un tempo minore, ma ci sono indizi che lasciano supporre meccanismi di maturazione anticorpale e resistenza al virus simili a quelli osservati nei vaccinati già infettati, giustificando così l’eventuale uso di dosi booster.

Come riassume bene uno studio pubblicato su Science Translational Medicine, l’esposizione ripetuta all‘antigene migliora la risposta immunitaria nel tempo, e che, di conseguenza, “l’efficacia del vaccino, anche contro varianti emergenti resistenti alla neutralizzazione, possa migliorare dopo una dose booster, anche se la dose booster contiene la proteina spike del lineage originale (del virus, nda)”.

 





[Fonte Wired.it]