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lunedì, Gen 11

Didattica a distanza, un fallimento organizzativo ma anche umano



Da Wired.it :

Non tutto si può risolvere con l’aggettivo “smart” e appellandosi alla potenza della rete. Ci sono ambiti come la scuola dove quello umano rimane l’elemento chiave e semplicemente non può essere colmato dalla tecnologia

La scuola superiore doveva ripartire oggi. In presenza, per almeno la metà degli studenti. E invece rimane esclusivamente a distanza in quasi tutto il paese, affidata alla famigerata “DaD che in questi mesi ha mostrato tutti i suoi limiti.

Anzitutto di tipo teorico: abbiamo infatti etichettato come didattica a distanza un pentolone di sistemi che vanno dai compiti distribuiti su WhatsApp alle soluzioni più sofisticate delle piattaforme specializzate, dai docenti che affogano nell’indolenza agli studenti senza dispositivi per collegarsi, dalle case cablate con rete in fibra ottica ultraveloce a quelle dove senza il tethering del cellulare per seguire mezza lezione la giornata salta, passando per gli appelli a regalare gigabyte rivolti ai colossi delle telecomunicazioni. Il primo limite della DaD è insomma quello che avevamo commesso la scorsa primavera scambiando il banale telelavoro come “smart working”: la DaD doveva essere un esperimento, certo forzato ma con molte aspettative, di “smart school”. E invece è rimasta una brutta telescuola con tutti i problemi di fondo: pratici, didattici e psicologici.

Foto di Steve Riot da Pixabay

Si riparte insomma solo in Toscana, Abruzzo e Valle d’Aosta: poco meno di 250mila studenti su due milioni e mezzo col cui futuro gli amministratori locali stanno scherzando da troppo tempo, puntando sull’immobilismo rispetto alle misure richieste, su tutte quelle sui trasporti praticamente ignorati, per sbattere in faccia al governo la più profonda tragedia educativa post-bellica. D’altronde, come hanno testimoniato diverse nostre inchieste, anche dalle autorità centrali è mancata la minima trasparenza sui dati reali dei contagi e sui focolai che si sono accesi nelle scuole, fornendo alle regioni una sponda alle loro lacune per un rientro in sicurezza dopo le sei settimane di scuola fra settembre e ottobre. Di nuovo, dopo la ferita dell’anno scolastico 2019-2020, anche la nuova stagione uscirà infatti mutilata. Al momento i ragazzi hanno un mese e mezzo all’attivo, nei casi migliori.

Le tecnologie non possono sostituire quell’ecosistema delicato che è la scuola. Su questo, dopo un anno di pandemia, non c’è più alcun dubbio. Ci si può rimpiazzare un meeting di lavoro, forse, di certo non un’appassionata lezione né un percorso formativo lungo mesi il cui compito è proporre un progetto di vita, più che concludere un programma ministeriale. L’intermediazione dei dispositivi accorcia le distanze, è vero, ed è meglio di niente quando l’emergenza ti prende alle spalle. Ma con l’emergenza ci conviviamo ormai da quasi un anno ed è chiaro che se la condizione del sistema educativo italiano è questa – una parte degli studenti che protesta per rientrare in classe e un’altra che si inabissa verso la dispersione scolastica, gli insegnanti divisi anche perché non sanno quando potranno vaccinarsi – l’esperimento dell’emergenza va archiviato e anche di corsa.

Una scuola condotta con un docente a casa sua e una classe sparpagliata sul territorio, spesso senza spazi a disposizione e con l’intera famiglia dentro casa, smarrisce quel residuo di sacralità che rimaneva all’educazione. E sul piano pratico uccide le già bassissime soglie d’attenzione dei ragazzi, sottrae agli insegnanti il ricorso alle proprie, migliori qualità pedagogiche (che quasi per nulla riguardano i contenuti in senso stretto) e riduce una relazione umana a una trasmissione di dati. Impossibile negare i casi d’eccellenza, le piattaforme che funzionano, le realtà che in qualche maniera sono riuscite ad arrangiarsi, per esempio distribuendo i tablet ai ragazzi sprovvisti: non sono la regola. E quand’anche lo fossero, sarebbero comunque solo il simulacro, una stiracchiata sufficienza di un’esperienza che milioni di ragazzi hanno il diritto di vivere in un’altra modalità. Da dieci e lode. E in sicurezza.

Insomma, l’esperimento è fallito, diciamocelo con onestà salvando il salvabile ma senza illuderci sulle qualità del digitale in ambiti in cui, semplicemente, il digitale può ampliare ma non sostituire, mantenere un segnale ma non alimentare la fiamma. Non lo vedremo a breve, perché non abbiamo modo di valutarlo in modo scientifico. Lo scopriremo fra qualche anno, magari con i risultati drammatici che arriveranno dai programmi di valutazione internazionale come gli Ocse-Pisa, in cui da sempre galleggiamo alternando livelli confortanti ad altri allarmanti proprio nelle discipline che più ci servirebbero per prepararci al futuro del lavoro e delle emergenze come il coronavirus.

Ma intanto vediamo gli effetti collaterali di una generazione destinata a una mattinata scolastica da hikikomori e un infinito pomeriggio senza limiti, a una società che la mattina li vuole chiusi in casa e il pomeriggio ignora i rischi – forse più concreti – che si assumono ignorando ogni cautela. Basta guardarsi intorno, chiunque se l’è domandato: il pericolo di riportare con impegno in classe i ragazzi è davvero superiore al rompete le righe generale a cui assistiamo da mesi in ogni piazza (legato a doppio filo anche alla perdita di scolarizzazione, ai ritmi saltati, alla deresponsabilizzazione indotta da mille scappatoie) o forse non si è fatto tutto quello che si poteva fare?

Ciò che vediamo sotto i nostri occhi è appunto questo sbandamento. Stando a un’indagine del centro studi dell’ordine degli psicologi, il 32% dei ragazzi fra i 14 e i 18 anni è pessimista sul futuro. Gli studenti credono che alla fine dell’epidemia la loro vita non tornerà come prima. E hanno ragione, perché avranno perso un pezzo fondamentale del proprio potenziale umano mentre qualcuno spiegava loro che potevano serenamente trascorrere mesi di demotivazione assoluta su Google Classroom o Microsoft Teams. Intanto, una ricerca Ipsos condotta per Save the Children ci spiega che 34mila ragazzi rischiano di mollare la scuola, che il 28% degli intervistati afferma che dal lockdown della scorsa primavera c’è almeno un compagno di classe che ha smesso completamente di frequentare le lezioni, con il 7% che spiega che i compagni di scuola “dispersi” a partire dal lockdown sono tre o più di tre. Non solo: per il 35% la propria preparazione è peggiorata e uno su quattro deve recuperare diverse materie.

Questo è probabilmente l’errore imperdonabile con cui stiamo condannando una generazione e illudendo quelle successive: ritenere la DaD un sostituto simmetrico della scuola, la sua versione digitale, la soluzione di cui tutto sommato dobbiamo accontentarci. Se così fosse, non avremmo in mano questi numeri.

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[Fonte Wired.it]