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lunedì, Gen 27

Dolittle riesce a far sembrare noioso perfino Robert Downey Jr


Pensato per spopolare in tutto il mondo, modellato su altri film di successo e privato di ogni specificità, il risultato è un film senza personalità. Dal 30 gennaio al cinema

Ci sono tre uomini che lottano, si dannano e combattono per la salvezza di una donna immobile, in pericolo di morte su un letto, e lo fanno utilizzando suggerimenti e seguendo le tracce di un’altra donna, scomparsa tempo addietro. La definizione stessa di donne come motore immobile. Dolittle tiene così fede alla propria età e alle proprie origini che affondano nei romanzi di Hugh Lofting degli anni ‘20, mostrando un classico mondo in cui sono gli uomini a farsi in 4 per il bene dell’altra metà del cielo. Ma non è solo questa divisione dei compiti a ricordare l’intrattenimento avventuroso classico, è anche la maniera in cui il film utilizza gli scenari e costruisce un mondo esotico.

La regina d’Inghilterra è stata avvelenata, solo il dottor Dolittle può aiutarla ma sono anni che non esercita, distrutto dalla scomparsa della sua amata. Una ragazza coraggiosa e un nuovo aiutante lo sproneranno a tornare in attività, assieme alla sua banda di animali con cui è in grado di parlare, per il bene della corona. Il viaggio che parte da qui sta tra Narnia, per il grande esotismo assolato dei mari da solcare e delle bestie con cui interagire (mitologiche e non) e I pirati dei Caraibi, per la maniera in cui caratterizza nemici.

Dolittle insomma non somiglia assolutamente alle precedenti versioni per il cinema del personaggio ma si rifà direttamente al vero carattere delle storie per bambini originali. Non punta direttamente sul comico ma più sull’azione con palesi ambizioni di franchise. Appena uscito dal mondo Marvel, Robert Downey Jr. cerca qui un nuovo filone di film in serie che sostengano il suo status di star. Probabile che debba però cercare di meglio perché Dolittle è fiacchissimo, non riesce né a divertire davvero né a dare quel senso di grande storia e grande avventura che così ardentemente desidera.

A meno che non venga salvato dall’Oriente (per il quale è anche costruito), Dolittle non sembra a livello dei grandissimi franchise dei nostri anni, è un pallone gonfio di niente che si sostiene grazie alla sfavillante confezione, agli ottimi effetti e alle star che doppiano (Emma Thompson, Rami Malek, John Cena, Craig Robinson, Ralph Fiennes…), ma che non riesce poi a fare di tutto ciò davvero qualcosa di appassionante. Esattamente come gli ultimi capitoli di I pirati dei Caraibi, ha solo l’idea e il vago odore del grande blockbuster e mai il sapore. Allude a qualcosa di appassionante, divertente e ritmato ma gli manca la personalità.

Per essere ancora più specifici è proprio al protagonista che manca personalità. Il mondo intorno a Dolittle, costruito con attenzione per avere tutti gli elementi di comprovato successo, riesce comunque ad avere una sua vaga originalità, mentre lui, il protagonista, è costantemente in secondo piano, animale tra gli animali. L’impressione forte è che se mai ci dovessero essere dei sequel, questi in fondo potrebbero anche non prevedere il personaggio il cui nome dà il titolo ai film, tanto suona sacrificabile. Anche perché l’ensemble di animali, le cui interazioni sono fortemente ispirate a quelle dei giocattoli di Toy Story (vero modello per tutte le bande di comprimari da lì in poi) funziona da sé. Dolittle è ridotto a trasportatore di animali con una vaga caratterizzazione, che è strano da un attore come Robert Downey Jr., colui che ha ridato spolvero a Sherlock Holmes e ha creato un Tony Stark tutto suo, molto più di successo di quello originale dei fumetti.

La definitiva conferma arriva con la comparsa di Antonio Banderas, nemico/amico di seconda fascia (il vero villain è un inutilissimo Michael Sheen, sottoutilizzato con colpevole consapevolezza dal film), capace in poche scene di emanare molto più carisma di tutti gli altri, di avere l’afflato che serve per dare al film una parvenza di avventura vera. Questo del resto è lo scotto che viene pagato nel momento in cui l’obiettivo è palesemente abbassare la specificità, la particolarità e l’identità del film per ampliare il pubblico potenziale. Con il minor numero possibile di umani e un alto numero di animali in computer grafica, con location per la maggior parte inesistenti ed esotiche, Dolittle mira a non appartenere troppo all’Occidente. Cercando il minimo comune denominatore nella trama e nelle interazioni mira ad essere d’appeal per tutti, a fare in modo che chiunque possa riconoscersi in qualche maniera, tanto è basilare.

Il risultato, nemmeno troppo difficile da prevedere, è così generico da non avere sapori particolari. La maniera migliore di confezionare un film per tutto il mondo, cioè annullare le specificità, minimizzare la sofisticazione, aumentare la comprensibilità di tutti i target in tutti i paesi, è stato il segreto di molti successi (Transformers, Warcraft, lo stesso Pirati dei Caraibi da un certo punto in poi), qui è invece la ricetta del disastro.

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