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martedì, Ott 27

Donald Norman: “Ecco come la psichiatria può (e deve) tornare centrata sull’umano grazie alla tecnologia”



Da Wired.it :

Salute mentale e tecnologia: uno sguardo al futuro tra realtà virtuale e aumentata per la psichiatria, con la prospettiva dell’intelligenza artificiale che interviene in situazioni di urgenza

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(foto: Wikimedia Commons)

Realtà aumentata e virtuale stanno entrando sempre più nel mondo della psichiatria, e la pandemia non fa che accelerare trend come quelli della telemedicina e dell’assistenza da remoto. Oltre, purtroppo, ad aumentare l’incidenza dei problemi mentali, tanto che oggi ne è interessato un europeo su sei, per un totale di 84 milioni di persone. Ma su quali basi – tecnologiche e umane – può continuare a fondarsi l’assistenza specialistica alle persone in difficoltà? In che modo si può riuscire a ricavare il meglio dagli strumenti digitali, senza generare storture e aberrazioni?

A parlarne a Wired è lo psicologo cognitivo Donald Norman, già direttore del Design Lab dell’università della California. Lo abbiamo incontrato (naturalmente con una tele-intervista) a margine dell’hackaton degli scorsi 13 e 14 ottobre, un grande evento dedicato alla digital mental health condotto da Wired e organizzato da Angelini Pharma. Un appuntamento nato in concomitanza della Giornata mondiale della salute mentale e che ha coinvolto 20 giovani e motivati psichiatri da tutta Europa, interessati alle innovazioni nel campo della salute mentale, oltre a ospiti del calibro di Norman. Il tutto per sviluppare una soluzione digitale per i pazienti che soffrono di depressione, schizofrenia o altre patologie nella salute mentale, e rispondere al crescente bisogno di supporto soprattutto durante e dopo la pandemia di Covid-19. Tema di cui, peraltro, si è parlato anche al Wired Next Fest.

Donald Norman, intervenendo all’hackaton sulla digital mental health ha parlato della necessità per la psichiatria di mantenere un approccio umano-centrico anziché guidato dalla tecnologia: che cosa intende?

“La medicina è una disciplina che si occupa delle persone, non della tecnologia. E la psichiatria, in particolare, dovrebbe focalizzarsi sull’individuo nel suo complesso più che sui farmaci. Molti medici specialisti guardano solo alla loro branca, quasi avessero il paraocchi, e non vanno al di là della propria specialità clinica. Ciò porta spesso a parlare erroneamente di pazienti anziché di persone, e non di rado conduce a diagnosi sbagliate.

“Credo ci siano quattro pilastri dell’umano-centrismo che dovrebbero essere alla base anche della psichiatria, e più in generale della medicina. Anzitutto un principio di design, con la focalizzazione sulle persone fin dal principio. Poi non guardare semplicemente ai sintomi, ma cercare il cuore del problema che li determina. Terzo, prendere coscienza che l’essere umano è complesso e interagisce con l’ambiente, quindi occorre ampliare lo sguardo ed estenderlo, per esempio, anche alla sua famiglia e alle sue relazioni. Infine, ma non per importanza, dovremmo accettare che qualunque cosa venga creata o prescritta non sia perfetta: va bene così, consapevoli che occorre continuare a migliorare, a sperimentare e a correggere il tiro”.

Come si possono tradurre questi principi in pratica?

“In un contesto sanitario in cui l’efficienza dei medici è misurata in base al tempo, si è persa gran parte della libertà d’azione. Negli Stati Uniti vengono dedicati appena 15 minuti a ciascun paziente, una durata nettamente insufficiente per creare empatia e occuparsi adeguatamente della persona che si ha di fronte. Si dovrebbe tornare al vecchio modo di trattare le persone, vedendole come esseri umani più che come una collezione di sintomi“.

Quali sono a oggi le potenzialità della realtà virtuale e aumentata per la psichiatria, e come crede potranno cambiare il modo di operare dei medici?

“La relazione tra curante e curato non cambierà. La tecnologia è importante nella misura in cui permette di fare cose prima impossibili. Per esempio, per chi soffre di vertigini la realtà virtuale è un buon modo per desensibilizzare alla paura, portando le persone in un istante sulla cima dei grattacieli o sul ciglio degli strapiombi. Sia la realtà virtuale, che porta in altri mondi, sia quella aumentata, che permette di aggiungere cose nel mondo reale, sono adatte alle terapie da remoto. In generale credo sia sempre meglio se medico e paziente si trovano fisicamente nello stesso posto, ma se ci sono grandi distanze, difficoltà logistiche o – che so – una pandemia, allora strumenti come questi aiutano a superare le distanze e a migliorare l’interazione. Per alcune attività specifiche, poi, l’interazione a distanza è equivalente o persino migliore che faccia a faccia. Per un’intervista come questa, per esempio, con il digitale non si perde nulla.

“Bisogna poi aggiungere che oggi ci sono sensori che permettono di ottenere da remoto molte informazioni: possiamo determinare umore, emozioni, frequenza cardiaca, ossigenazione del sangue e molto altro anche da piccole variazioni di temperatura sulla fronte e dall’espressione. Già oggi i sistemi di riconoscimento facciale delle emozioni funzionano piuttosto bene”.

Sta alludendo all’idea che presto potremmo avere intelligenze artificiali che facciano il lavoro del medico?

“In un certo senso sì, per esempio in radiologia i computer svolgono già certi compiti meglio e più in fretta dei medici in carne e ossa. Ma attenzione: in questo caso i radiologi sono contenti dell’arrivo della tecnologia, perché sono stanchi di svolgere mansioni routinarie, e grazie all’innovazione possono risparmiare tempo per stare di più con i loro pazienti. Ma non tutte le specialità mediche sono equiparabili.

“Credo che in generale potremo avere sistemi di diagnosi che daranno raccomandazioni. Pensiamo a un un genitore con il figlio che si sveglia nel cuore della notte e sta male: ora non si sa come comportarsi, ma in futuro un’intelligenza artificiale potrà capire rapidamente se si tratta di qualcosa di serio che richiede una corsa al pronto soccorso o meno.

“Per la psichiatria vale lo stesso: un’intelligenza artificiale potrà capire se la condizione di una persona richieda interventi immediati, e in più potrà dare un’assistenza psicologica immediata, parlandoci. Anche se difficilmente avrà capacità confrontabili con quelle degli specialisti, e di certo non sarà un sistema perfetto né si sostituirà al professionista umano, potrà dare un aiuto in situazioni di particolare urgenza“.

Proprio a proposito di psichiatria, crede che le applicazioni hi-tech avranno un impatto importante sulla vita quotidiana dei professionisti?

“La vita degli psichiatri sarà più facile, anzitutto perché avranno più informazioni a disposizione. Pensiamo ai dati dei pazienti, o alla cronologia di tutti i trattamenti, inclusi magari quelli d’urgenza fatti da un collega nel cuore della notte di cui ora si rischia di perdere traccia. Ciò che gli psichiatri più odiano del loro lavoro è la parte burocratica e di documentazione. In futuro i sistemi automatici compileranno da soli documenti e record, magari grazie a sistemi di riconoscimento vocale che sintetizzeranno velocemente le informazioni chiave. Togliere il pesante fardello della burocrazia lascerebbe ai il tempo di occuparsi di ciò che desiderano fare, ossia occuparsi dei pazienti e parlare con loro”.

All’interno di questo trend, quali sono le peculiarità della salute mentale rispetto agli altri ambiti della sanità?

“La psichiatria è un campo della medicina che ha a che fare con la parte più complessa dell’essere umano: la mente. Mentre in altre specialità mediche noi conosciamo i dettagli della fisiologia e capiamo esattamente cosa succede, sul cervello possiamo vedere solo traumi e danni fisici, ma condizioni come paranoie e stress sono identificabili solo dal professionista senza l’uso di strumentazioni. I pensieri sono invisibili, e anche se possiamo vedere quali parti del cervello sono attive non possiamo osservare i ragionamenti e le anomalie, quindi fare diagnosi. Al momento la tecnologia ci permette di identificare cause concrete come lesioni e ictus, e per questo lo psichiatra interloquisce sempre più spesso con il neurologo, ma la gran parte dei pazienti ha problemi di salute mentale che nessuno strumento può evidenziare.

“Certo, i tool per analizzare il cervello dal punto di vista elettrico stanno migliorando, ma quello che crea problemi il più delle volte è la chimica del cervello. Questo è il motivo per cui abbiamo farmaci. Una prospettiva interessante credo sia quella della medicina personalizzata, con trattamenti specifici per il singolo individuo determinati in base al suo dna. Ma è una prospettiva a lungo termine, e non possiamo sapere se tutto questo un giorno sarà automatizzato”.

Siamo all’inizio di una nuova stagione fredda che si preannuncia complessa dal punto di vista della gestione della pandemia. In che modo la Covid-19 sta cambiando il panorama della telemedicina per la salute mentale?

“Alcune delle novità introdotte in tempo di pandemia resteranno, mentre altre saranno solo temporanee. La pandemia ci ha costretto a cambiare più rapidamente, inducendo delle discontinuità. Abbiamo scoperto che alcune attività riescono addirittura meglio se fatte in videochiamata, e altre ovviamente sono peggio, proprio come accade anche a scuola. Gli studenti a volte riescono a vedere e seguire meglio l’insegnante online rispetto allo stare in una classe chiassosa, creando un’interazione più diretta: un analogo può valere anche in medicina. Credo comunque che a lungo termine ci riavvicineremo alla vecchia normalità, facendo molte cose offline ma mantenendo tutte quelle parti positive che l’online ci ha insegnato”.

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[Fonte Wired.it]