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giovedì, Ott 17

È già ora di parlare di 6G?


Uno sguardo consapevolmente prematuro alla prossima-prossima generazione di trasmissione dati mobile: c’è chi ci sta già lavorando, anche in Europa

(foto: SeongJoon Cho/Bloomberg)

Che senso ha parlare di 6G, quando il 5G non è ancora uscito dalla fase di sperimentazione e una buona parte del mondo non ha nemmeno accesso al 4G? Per assurdo che possa suonare, abbiamo già qualche ragione per gettare uno sguardo sulla generazione di trasmissione dati mobile che succederà al tanto atteso 5G.

In parte perché Donald Trump stesso – nella speranza di colmare almeno in futuro la crescente distanza con la Cina – ha accennato alla questione nel giugno 2019, ma soprattutto perché parecchie realtà già oggi stanno lavorando per porre le basi dello sviluppo del 6G. Il presidente degli Stati Uniti non sarà però felice di sapere che, ancora una volta, gli Usa stanno rincorrendo.

Certo, l’università di Virginia Tech è stata una delle prime a lanciare un progetto di ricerca sul 6G, ma in questo campo sono nettamente più avanti la Corea del Sud (con Lg e Samsung già al lavoro) e soprattutto – come noi di Wired vi avevamo già raccontato lo scorso febbraio – la Finlandia. La nazione del Nord Europa, da sempre pioniera nel campo della comunicazione mobile, ha infatti lanciato un programma di otto anni, finanziato con 251 milioni di dollari, chiamato 6Genesis; grazie anche al supporto di Nokia (che è inoltre uno dei principali abilitatori del 5G).

Ed è proprio uno dei ricercatori coinvolti nel progetto 6Genesis, Ari Pouttu, a spiegare perché già oggi si sta iniziando a lavorare su qualcosa che non si sa neanche in cosa potrebbe consistere: “In questa fase c’è ancora una certa riluttanza a parlare di 6G”, ha spiegato Pouttu a Techradar. “[Nel settore del mobile] c’è però una tradizione, secondo cui le generazioni con i numeri pari sono quelle che concretizzano le promesse fatte dai numeri dispari. Per esempio, è stato il 4G a portare a termine la rivoluzione accennata dal 3G e sarà il 6G a portare a termine la trasformazione infrastrutturale promessa dal 5G”.

Un esempio che aiuta a capire di che cosa si sta parlando è quello delle auto autonome. Le tanto attese – e costantemente rimandate – self driving cars sono sempre al centro dell’attenzione quando si parla di 5G, grazie al quale questi veicoli potranno comunicare istantaneamente tra loro e con i sensori incorporati in semafori, cartelli stradali e altro; garantendo la massima sicurezza e affidabilità.

Coordinare la flotta di auto autonome che popolerà le metropoli, però, è un ostacolo ingegneristico importante: “Ogni giorno entrano in una città come New York 2,7 milioni di veicoli”, si legge sulla Mit Tech Review. “Le self driving cars del futuro dovranno essere costantemente consapevoli della loro posizione, dell’ambiente che le circonda e di come sta cambiando, dei ciclisti, dei pedoni e delle altre automobili. Dovranno gestire l’attraversamento di snodi complessi e ottimizzare il loro percorso per ridurre i tempi degli spostamenti. Questo è una sfida computazionale significativa”.

Per gestire tutte queste interazioni, in poche parole, potrebbero essere necessari un volume di dati, una velocità e una latenza (il tempo che due dispositivi impiegano a entrare in connessione) che sono anche oltre le capacità del 5G. Lo stesso vale per le elevate aspettative in termini di industria 4.0, agricoltura di precisione o medicina a distanza (che consente a un chirurgo di sfruttare la bassa latenza per compiere operazioni in remoto, manovrando un robot in perfetta sincronia). Le caratteristiche del 5G potrebbero non essere sufficienti: affinché tutto ciò diventi realtà si dovrà forse attendere una generazione ulteriore.

Ma il 6G non avrà solo il compito di realizzare le promesse del suo predecessore. Secondo Marcus Weldon dei Nokia Bell Labs, per esempio, il 6G sarà “un sesto senso per gli umani e per le macchine, grazie al quale la biologia si unirà all’intelligenza artificiale”. Difficile capire oggi che cosa possa significare in concreto una definizione del genere, che però fornisce almeno un’idea della direzione in cui si sta lavorando: un’integrazione sempre maggiore tra essere umano e macchina.

“In termini di velocità, la rete 6G consentirà di raggiungere 1 terabit al secondo utilizzando le frequenze appena inferiori a un terahertz, e consentirà di connettere migliaia di miliardi di dispositivi”, si legge ancora su Techradar. Il 6G, di conseguenza, potrebbe essere il vero abilitatore di quella internet of everything che oggi è solo un termine alla moda utilizzato nelle conferenze tech per impressionare gli spettatori.

La velocità sarà quindi centinaia di volte superiore a quella promessa dal 5G (che dovrebbe essere attorno a un gigabit al secondo), mentre la latenza passerà dai 2/4 millisecondi del 5G a praticamente zero, rendendo la connessione tra dispositivi letteralmente istantanea (grazie anche all’utilizzo dell’intelligenza artificiale per ottimizzare la trasmissione dei dati attraverso il network).

Ovviamente, si presenteranno nuovi problemi, simili a quelli a cui già si sta andando incontro. Il 5G sfrutta infatti anche le frequenze tra i 30 e i 300 GHz: onde millimetriche, dalla frequenza elevatissima, che non sono in grado di viaggiare lontano come quelle utilizzate dal 4G (fermandosi a circa 300 metri di distanza laddove quelle del 4G possono percorrere alcuni chilometri). Non solo: queste frequenze sono molto più sensibili a ostacoli come muri, alberi, finestre e alle condizioni meteorologiche. Tutto ciò fa sì che per dare vita al 5G sarà necessario disseminare in ogni dove dei microripetitori che consentano al segnale di propagarsi adeguatamente.

Le cose peggioreranno ulteriormente con il 6G, che – come detto – sfrutterà le frequenze appena al di sotto del terahertz. Più si sale nello spettro radio, infatti, più dati si possono trasportare ma più diminuisce la portata delle frequenze: nella gamma del terahertz, per esempio, non si va oltre una distanza di 10 metri; un aspetto che pone ulteriori sfide infrastrutturali.

Ma per porsi problemi di questo tipo è davvero troppo presto. Se la tempistica che regola l’avvento delle nuove generazioni di trasmissione dati mobile verrà rispettata, il 6G non diventerà realtà prima del 2030 (così come il 5G arriverà nel 2020, il 4G è del 2010, eccetera). E nemmeno è detto che davvero questa nuova tecnologia si chiamerà 6G: “Per quanto possa avere senso, potrebbe non assumere quel nome”, si legge su Lifewire. “Potremmo chiamarlo 5G avanzato o migliorato, o potremmo anche smettere del tutto con i numeri e i nomi e limitarci a dire che siamo connessi.

Come dire: la velocità sarà talmente elevata – e la latenza ormai virtualmente eliminata – che non avrà più senso battezzare i progressi compiuti nel campo delle comunicazioni mobile. Tutto sarà, semplicemente, istantaneo. E a quel punto non ci sarà più bisogno di coniare nuovi termini.

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