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lunedì, Lug 13

E se Trump non volesse lasciare la Casa Bianca, nemmeno da sconfitto?



Da Wired.it :

La campagna elettorale americana si preannuncia una delle più incerte di sempre. Esiste però un livello di incertezza da fantapolitica (ma nemmeno troppo): ecco cosa succederebbe se Trump non accettasse il verdetto delle urne

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, andrà in scena una delle tornate elettorali più incerte di sempre. Incerto sarà il clima nel quale si svolgeranno le elezioni presidenziali stesse, innanzitutto, un appuntamento democratico al momento messo in secondo piano dalla pandemia da Covid-19, che negli Stati Uniti non accenna a migliorare, con il numero di nuovi contagi giornalieri ormai stabilmente superiore ai 50mila.Incerte sono le modalità di voto – con il mail-in ballot (il voto via posta) diventato improvvisamente oggetto di contesa politica e accusato da Donald Trump di favorire potenziali brogli – e incerto è soprattutto il risultato della corsa alla Casa Bianca, che nonostante i sondaggi favorevoli a Biden sembra tutto fuorché chiusa.

Esiste però un ulteriore livello di incertezza, poche volte esplicitato, che ci porta direttamente alla data del 20 gennaio 2021: il giorno in cui, se sconfitto, Donald Trump dovrà abbandonare il suo ufficio alla Casa Bianca. Da tempo personalità politiche vicine a Trump evocano l’immagine di una presidenza destinata a durare ben oltre il limite del secondo mandato (sancito dalla costituzione con il XXII emendamento) e lo stesso presidente ha a più riprese scherzato sulla possibilità di restare in carica anche dopo il 2025.

In un’intervista rilasciata il 19 giugno scorso al sito web americano Politico, Trump ha evaso la domanda circa la possibilità di accettare il risultato elettorale, in caso di sconfitta, rispondendo semplicemente che “Hillary Clinton ha perso, ma non lo ha mai accettato”.

Per molto tempo una tale ipotesi è rimasta confinata al ruolo di caso di scuola, ma è arrivato il momento di porsi una domanda nient’affatto contata: cosa succederebbe se il presidente uscente decidesse di non lasciare la Casa Bianca?

Cosa dice la Costituzione americana

La transizione elettorale negli Stati Uniti è regolata dalla Costituzione, che all’articolo 2 stabilisce in 4 anni la durata del mandato presidenziale, specificando, nel XX emendamento, che questo debba necessariamente terminare entro mezzogiorno del ventesimo giorno di gennaio.

La prova del fuoco per il sistema democratico americano è arrivata nell’anno 1800, quando per la prima volta fu necessario attuare un trasferimento di potere fra due presidenti appartenenti a partiti opposti. Fino a quel momento gli Stati Uniti avevano avuto appena due presidenti (George Washington e John Adams) e l’opinione pubblica del tempo temeva che la vittoria di Thomas Jefferson, esponente democratico-repubblicano dichiaratamente ateo, potesse non essere accettato da tutti come legittima.

Come sappiamo, tutto andò per il meglio e così per i successivi 220 anni le transizioni presidenziali alla Casa Bianca si sono svolte pacificamente e rispettando la legge, rendendo superflua qualunque altra azione normativa in tal senso.

Ci sono dei precedenti

Il rifiuto di abbandonare una carica elettiva è un evento raro in democrazia, ma con dei notevoli precedenti. Nel 2016 la Repubblica Democratica del Congo dovette fronteggiare una sanguinosa crisi costituzionale, quando il presidente uscente Joseph Kabila rifiutò di farsi da parte dopo tre mandati e quindici anni consecutivi di governo, annunciando di voler rimandare di due anni il termine elettorale per portare a termine un censimento nel paese. Le proteste che seguirono portarono alla morte di 50 manifestanti, ma non impedirono a Kabila di restare al governo fino al 2018, quando rinunciò ad un’ulteriore ricandidatura.

Nel 2017 fu il turno del Gambia e del presidente uscente Yahya Jammeh, determinato a conservare il potere nonostante la sconfitta elettorale arrivata nel dicembre 2016. In questa circostanza la transizione presidenziale fu assicurata attraverso la minaccia militare della Comunità degli stati dell’Africa occidentale, che convinse Jammeh a lasciare il potere e scegliere l’esilio.

Nel novembre 2018 il caos politico colpì lo Sri Lanka, con l’ex primo ministro Ranil Wickremesinghe che rifiutò di abbandonare l’incarico (e la residenza istituzionale), dopo la decisione del presidente Sirisena di sciogliere l’esecutivo e sospendere il parlamento nazionale. Nel caso cingalese, la resistenza del primo ministro era giustificata dall’esistenza di una maggioranza parlamentare a lui fedele, che gli permise infine di restare al governo fino al termine del mandato.

L’ultimo caso di transizione turbolenta risale al mese di giugno 2019, quando il neoeletto esecutivo di coalizione tra gli europeisti di Now Platform e il Partito socialista filo-russo fu costretto a rimandare le procedure di insediamento a causa della resistenza del partito di governo uscente. Alla base della disputa, la regola secondo cui il nuovo governo sarebbe dovuto nascere entro tre mesi dalle elezioni, interpretata diversamente dalle due fazioni (tre mesi del calendario, secondo la nuova maggioranza, formata proprio allo scadere del termine, 90 giorni secondo quella uscente, che considerava il termine scaduto). Lo situazione di stallo si è risolta solo il 14 giugno, con le dimissioni del primo ministro sconfitto e il giuramento della nuova squadra di governo.

Nonostante dinamiche simili non abbiano mai coinvolto direttamente la presidenza, le cariche elettive degli Stati Uniti d’America non sono affatto estranee a transizioni problematiche. Nel 1874, ad esempio, il governatore repubblicano del Texas Edmund J. Davis si rinchiuse nello scantinato della sua dimora istituzionale per denunciare i presunti brogli che avevano portato alla vittoria dell’avversario, il democratico Richard Coke, che nel frattempo prestava giuramento al piano di sopra, scortato dallo sceriffo. La situazione si sbloccò solo dopo diversi giorni, quando Davis decise di chiedere aiuto all’allora presidente Ulysses Grant senza ottenere risposta.

Degno di nota è anche il caso della crisi dei tre governatori, consumatasi in Georgia nel 1946, quando il governatore eletto morì prima di aver prestato giuramento. La carica fu quindi reclamata da tre contendenti: il governatore uscente, il figlio del governatore eletto e il vice-governatore eletto. Mentre i primi due decisero di occupare fisicamente il palazzo del potere, cambiando a turno la serratura dell’ufficio, il vicegovernatore ottenne il parere favorevole della Corte suprema dello stato, risolvendo una crisi durata oltre tre mesi.

L’ipotesi della rimozione forzata

La resistenza immaginata (fin qui solo ironicamente) da Donald Trump rappresenterebbe dunque una prima volta assoluta per gli Stati Uniti, ma non sarebbe un completo salto nel buio.

Se Trump – o qualunque presidente dopo di lui – scegliesse di non abbandonare pacificamente la Casa Bianca, ciò non bloccherebbe il trasferimento del potere formale verso il presidente eletto, processo che priverebbe Trump dell’autorità costituzionalmente riconosciuta su servizi segreti e polizia federale. Al contempo, il presidente uscente cesserebbe di essere il comandante in capo delle forze armate, perdendo la facoltà di invocarle in sua difesa.

Il presidente uscente sarebbe a quel punto poco più che un privato cittadino, penalmente perseguibile per quella che si configurerebbe come una vera e propria violazione della proprietà più sorvegliata al mondo. Un modo decisamente poco presidenziale di concludere il mandato.

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[Fonte Wired.it]