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lunedì, Feb 03

È vero che Joaquin Phoenix non ha rivali per gli Oscar 2020?


È una delle annate migliori per la categoria “miglior attore” con candidati eccellenti. Eppure sembra tutto già deciso…

La logica da bookmaker non lascia scampo. Una volta vinto il Golden Globe, il SAG (il premio del sindacato attori, la categoria più rappresentata tra i votanti dell’Academy) e il BAFTA come miglior attore protagonista, 9 volte su 10 arriva l’Oscar. Così con la vittoria del premio britannico ieri sera Joaquin Phoenix ha messo un’ipoteca più che seria sull’Oscar. Del resto il suo Joker è un ruolo perfetto per piacere ai votanti dell’Academy: contiene molte delle caratteristiche cruciali per la vittoria della statuetta, molti degli snodi che nell’immaginario collettivo dei votanti costituiscono esempi di “bella recitazione”. Non è sempre vero e non è sempre così, ma malattie mentali, personaggi con grandi cambi di umore e trasformazioni fisiche sono le direttrici attraverso le quali gli Oscar valutano il lavoro degli attori. E per quanto quello di Phoenix (dovesse arrivare) sarà un premio meritato, quest’anno ci sono diversi altri attori in gara che lo meriterebbero tanto quanto lui.

Primo tra tutti Antonio Banderas che in Dolor y gloria ha messo a segno letteralmente la prestazione di una vita (e se non dovrebbe meritare un Oscar questo….). Anche lui interpreta qualcuno di malato, o meglio più che malato di sofferente. La sua è tutta una recitazione di corpo, un corpo afflitto da un milione di punture di spillo, di acciacchi e di malanni che lo rendono fiacco e impotente anche a livello intellettuale. Quella del film di Almodovar è la storia di Pedro Almodovar stesso, negli ultimi anni massacrato dai mali e incapace di dirigere ai livelli cui è abituato (“La regia è un lavoro fisico” spiega nel film). Banderas lo rappresenta trovando un punto di fusione incredibile tra il dolore provato e il volerlo nascondere agli altri, tra un uomo anziano ma con un passato turbolento che lo viene a trovare e risveglia in lui antichi turbamenti.

Ancora di più Dolor y gloria è la storia di una rinascita personale e intellettuale, diretta da un uomo che usa come alter ego un attore che scoprì quasi 40 anni fa, quando questi non sapeva recitare davvero (perché, seriamente il Banderas degli anni ‘80 era un quasi-attore), e lo ritrova ora maturato da esperienza straniere, invecchiato e finalmente in pieno possesso delle sue capacità. A partire da questo la dinamica maestro-allievo riparte e Almodovar lo spinge a dimenticare “quella merda americana”, come gli disse quando vide che lui recitava con stile hollywoodiano, e lavorare come una volta, mettendosi alla prova, facendosi plasmare e guidare. Il risultato è davvero stupefacente, uno studio umano e personale che racconta molto più di quel che dice la trama.

Il terzo in corsa è Adam Driver, l’attore emergente di questi anni. L’abbiamo capito tutti che è il domani della recitazione, ha già al suo attivo un pugno di interpretazioni clamorose tra cinema indipendente (Jim Jarmusch!) e commerciale (Guerre stellari!), sa muoversi benissimo in tutti gli ambiti, ha un volto fuori dai canoni ed è immediatamente comunicativo, parla al pubblico attraverso un canale preferenziale. In Storia di un matrimonio duetta con Scarlett Johansson nel campionato più difficile. Baumbach chiede loro di andare oltre la sceneggiatura, perché il film non è tanto la storia di due persone che divorziano, ma la storia di due esseri umani che hanno cambiato sentimenti nei confronti dell’altro, faticano a capirlo e quando lo capiscono si rendono conto che il nuovo sentimento che provano contiene l’amore di una volta ma in una forma differente. Questa non è roba che si scrive o si inquadra. È roba che si recita. La litigata più dura ed estrema mai vista in un film e una canzone cantata in piano sequenza (interpretandola benissimo), sono poi le ciliegine.

A questo punto può stare tranquillo Leonardo DiCaprio, protagonista di mille meme qualche anno fa quando l’Oscar lo inseguiva con tutte le sue forze, lo inseguiva fino a mascherarsi da J. Edgar Hoover o fino a entrare nello stomaco di una carcassa di animale oppure gettarsi vestito in un fiume ghiacciato. In qualsiasi altro caso si sarebbe potuto dire che non questo non è il suo anno e bene così, tuttavia Rick Dalton di C’era una volta a Hollywood è un personaggio fantastico, l’attore di serie B che capisce di essere finito, che non riuscirà mai a fare il salto nella serie A e passa giorni terribili sul set e a casa, si ubriaca, recita con una baby star professionale, viaggia in Italia a fare B movie nostrani e infine fa fuori la banda di Manson con la malinconia nel cuore e il sogno di incontrare Sharon Tate e Roman Polanski. Vivono accanto a lui ma sembrano distare anni luce e nel suo sguardo sognante di desiderio c’è tutto.

Infine chi ricorderà Jonathan Pryce, papa Bergoglio in I due papi, il secondo film di Netflix in questa categoria (dopo Storia di un matrimonio)? Scelto per l’incredibile somiglianza a papa Francesco, Pryce è un interprete classico e fantastico, uno che i premi non li prenderà mai perché non è il suo stile. Non si mette al centro, non cerca la teatralità del gesto, non prende il proscenio non mostra il lavoro che fa. Ma basta vedere questo film per capire che grandissimo interprete sia, capace di scomparire e dare al suo personaggio tutti i toni di cui ha bisogno in un’apparente mancanza di sforzo. L’impressione è che semplicemente quella sia anche la vita di Jonathan Pryce, che sia il suo carattere e che sia semplicemente spontaneo. Per raggiungere questo livello di invisibilità in cui le parole, gli snodi, le scene e anche i partner di recitazione (in questo caso uno sparring partner clamoroso: Anthony Hopkins) emergono molto più di lui, serve una capacità di arrivare al dunque, eliminare tutti gli orpelli e dimenticarsi di sé. Il vero mestiere.

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