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giovedì, Gen 30

Ecommerce in Europa, rivoluzione “dietro le quinte” per cambiarlo


Bruxelles vuole limitare lo strapotere delle piattaforme come Amazon, Booking e Tripadvisor. Da luglio ranking e clausole più trasparenti per aiutare le pmi. Chi vincerà?

Il logo della piattaforma di ecommerce Amazon (foto di Florian Gaertner/Photothek via Getty Images)
Il logo della piattaforma di ecommerce Amazon (foto di Florian Gaertner/Photothek via Getty Images)

Destinazione: Milano. Date: dal 13 al 14 gennaio. Viaggiatori: uno. A queste condizioni Airbnb offre 300 alloggi in città. Ma se la ricerca parte in contemporanea da due browser, pur senza toccare i vari filtri per raffinarla, come prezzo o tipo di abitazione, sullo schermo compaiono due classifiche diverse. L’alloggio che in una lista è al primo posto, nell’altra è al terzo.

Perché? Se sei il proprietario di casa di uno di quelle 300 sistemazioni, o dei 7 milioni che Airbnb offre nel mondo, è indispensabile sapere come funziona il ranking, visto che, secondo l’ultimo studio del Nielsen Norman group (specializzato in ricerche sulla user experience) gli utenti spendono il 57% del tempo che dedicano a una pagina web nella parte superiore e il 74% ai primi due blocchi. Detto altrimenti, vende meglio chi sta in cima alla lista.

Il confronto della ricerca stanze su Airbnb (screenshot da Airbnb)
Il confronto della ricerca stanze su Airbnb (screenshot da Airbnb)

Lo dimostra il caso di Amazon, il più grande ecommerce del mondo. Il 42% degli utenti che cerca un prodotto non va oltre la prima pagina. E il 26% degli oltre duemila statunitensi osservati nel 2019 da Feedvisor (società di soluzioni per l’ecommerce) ha comprato il primo della lista.

Per questo l’Unione europea ha deciso di cambiare le regole del gioco per tutte quelle piattaforme digitali che fungono da intermediari per chi vende prodotti o servizi online. Da Google, Amazon, Alibaba, Ebay, Airbnb, Expedia, Booking, Tripadvisor, Deliveroo, Glovo in giù, gli oltre settemila marketplace censiti in Europa dal 12 luglio dovranno adeguarsi al regolamento 1150, varato nel giugno 2019.

La Commissione vuole promuovere “equità e trasparenza” per le imprese, specie le più piccole, che sfruttano queste ammiraglie digitali per raggiungere la clientela ma non ne conoscono gli ingranaggi. Di conseguenza, meccanismi di ranking, termini del servizio, procedure di chiusura di un profilo da quest’estate dovranno essere chiari, comprensibili e cristallini. Giocare ad armi pari, tra venditore e marketplace, ed eliminare le asimmetrie che danno al secondo un potere sconfinato sul primo: questi sulla carta gli obiettivi di Bruxelles.

Lato clienti non aspettatiamoci sconvolgimenti. “I consumatori non vedranno nulla”, anticipa Werner Stengg, a capo dell’unità ecommerce e piattaforme della direzione generale Connect della Commissione europea (responsabile per reti e tecnologia). La manovra avrà effetto dietro le quinte, nel rapporto tra le piattaforme e le aziende che le usano per vendere merce e servizi in rete. Ma quest’ultime a che punto sono con il processo di adeguamento al nuovo corso? Wired ha interpellato varie piattaforme. Amazon, Alibaba, Glovo ed Ebay hanno dichiarato di essere al lavoro. The Fork, Tripadvisor, Uber eats, Booking non hanno risposto alle domande. Deliveroo attende le linee guida, che la Ue pubblicherà a fine aprile, per adeguarsi.

Un posto al sole

Il regolamento sarà sufficiente o la montagna partorirà l’ennesimo topolino? “Non c’è prova che sia abbastanza e non risolverà ogni problema”, riconosce Stengg. Ma, aggiunge, “per la prima volta si lavora sulla trasparenza. Nessuno l’ha mai fatto prima d’ora, ma se non vuoi altre regole, occorre che ti comporti bene”. La norma tocca alcuni dei punti dolenti dell’ecommerce. Primo tra tutti: il ranking. Le piattaforme dovranno elencare i criteri principali per migliorare il posizionamento nei risultati (dal tipo di offerta al Seo, una decina al massimo) e specificare se un aiutino, come il pagamento di una commissione, consente di balzare ai piani alti.

Oggi capire come funziona il ranking e scalarlo non è affatto facile. Uno studio sulla trasparenza delle piattaforme finanziato dalla Commissione europea nel 2018 evidenzia, per esempio, che ordinare i risultati sulla base della popolarità, come capita su alcuni siti, “può essere un criterio non verificabile e non oggettivo” e di conseguenza “aprire a manipolazioni e distorsioni”. Tanto che aumenta del 115% la probabilità che un prodotto sia selezionato, senza però che sia esattamente quello che il cliente cercava.

I criteri non sono affatto chiari: non ci sono informazioni su come funzionino indicizzazione e classifiche dal momento che gli algoritmi di calcolo sono di proprietà delle piattaforme”, spiega a Wired Lorenzo Ferrari, 30, fondatore di Ristoratore Top, un’agenzia di marketing specializzata nella visibilità online dei ristoranti.

Tripadvisor, per esempio, a detta del suo amministratore delegato tiene conto di qualità, quantità e frequenza delle recensioni per creare la classifica, ma “non ci è dato sapere se ci siano altri parametri”, dice Ferrari. Wired ha interpellato l’azienda, che però non ha risposto alle domande. Per la piattaforme di consegna a domicilio, invece, valgono “prossimità geografica, pertinenza della ricerca e numero di ordini effettuati”, dice il fondatore di Ristoratore Top. Ossia più lavori e più ti fanno lavorare.

Ma la visibilità si può anche comprare. Per esempio con forme di promozione o pubblicità. Tripadvisor ha un programma di questo tipo. Su Glovo, invece, i ristoranti possono orientare la propria indicizzazione, se attivano una promozione, come spiega l’azienda. Ma, avverte, “non si tratta di un processo strutturale, poiché avviene per casi specifici e con determinate tempistiche”.

Hotel in cerca di visibilità

Dai ristoranti agli alberghi, la situazione è la stessa. Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi (associazione di categoria), ricorda “l’esempio eclatante del programma preferiti di Booking. Il consumatore è portato a pensare che siano i preferiti dai clienti, mentre si paga per stare lì dentro, almeno il 5% in più di commissioni. Tanto che a Rapallo un gruppo di hotel, praticamente la maggior parte, è uscito dal programma, poiché essendo tutti dentro, non c’era nessun beneficio”. Così, sommando le commissioni per scalare il ranking, l’iscrizione a questi portali “arriva a pesare anche il 25%-30% dei ricavi” che un albergo ne trae, commenta Nucara.

Le aziende non hanno indicazioni su come possano migliorare la posizione in classifica, salvo sapere che pagare di più le porta più in alto nei risultati”, spiega a Wired Markus Luthe, presidente di Hotrec, l’associazione europea di alberghi, bar e ristoranti. E, aggiunge, “quando vengono implementate modifiche nei criteri di indicizzazione, le aziende spesso non sono informate per tempo”. Ma se consideriamo, come evidenziano i dati Hotrec, che il 91% dei 200mila alberghi in Europa è a conduzione familiare o gestito da piccole imprese, mentre l’80% delle prenotazioni passa ormai attraverso solo due piattaforme online, c’è un’asimmetria che la nebulosità dei criteri di ranking non fa che acuire. E che solo in parte, secondo gli albergatori, il regolamento europeo potrà correggere.

A Wired Expedia ha fatto sapere che che tra i fattori presi in considerazione dal ranking ci sono “la posizione di una struttura, i punteggi delle recensioni, la popolarità della struttura (misurata da quanti viaggiatori sui nostri siti effettuano prenotazioni presso la stessa), la qualità del contenuto fornito, la competitività delle tariffe e la disponibilità della struttura”. E i soldi? “L’entità del corrispettivo può avere un ruolo, ma solo per differenziare strutture simili in termini di punteggio (operando quindi come uno “spareggio”) – fanno sapere dall’azienda -. Non è comunque possibile per un hotel raggiungere la vetta più alta del ranking semplicemente pagando più di altri”.

Costo per click

Su Google, si sa, la seo (search engine optimization) la fa da padrone. E alle volte è sufficiente per sedersi in cima al podio. Ricompro, una società di Milano specializzata in vendita di iPhone e smartphone ricondizionati, ha monitorato per una settimana (21-27 gennaio 2020) per Wired il suo posizionamento sul motore di ricerca. Se gli utenti cercano Samsung S10 ricondizionato, Ricompro è al primo posto sui risultati organici. Con un click through rate (ctr, il tasso di chi clicca sul link) altissimo, dal 15% al 43% a seconda dei giorni. In questo caso, comprare posizioni non conviene. L’esperimento dimostra che il ctr degli annunci pagati è addirittura più basso (tra 7% e 10%).

Ma quella dei Samsung S10, ammettono dalla società, è una nicchia (il numero di ricerche e di impressions è basso). Spostandosi su altri campi, più ampi, la concorrenza si fa più agguerrita. Vedi alla voce iPhone. Già su una ricerca specifica, iPhone Xs ricondizionato, Ricompro oscilla tra la quarta e la settima posizione. Se si digita un generico “iPhone ricondizionati”, la società scivola tra la 17esima e la 22esima posizione. Il crt è molto più basso e in taluni giorni è pari a zero. Vuole dire che se nessuno vede quell’annuncio, nessuno arriverà da Google sul sito di Ricompro per fare shopping. Pagando, invece, le impressions decuplicano, nel caso della ricerca su iPhone ricondizionati, e il click through rate si attesta su uno stabile 7,7%. Le occasioni di vendere, ça va sans dire, aumentano di conseguenza.

Ma il gioco vale la candela? Dipende dal prezzo del prodotto e dal settore, ma è chiaro che chi ha grandi numeri può sopportare alcune perdite per tenersi nella parte alta della classifica, mentre una piccola impresa rischia di non ripagare l’investimento in pubblicità. Per Fabian Thobe, fondatore di Ricompro, “questo dimostra che specialmente le piccole aziende faranno fatica a competere con le grandi, che possono andare in perdita sui prodotti di basso margine”. E qui non c’è regolamento Ue che tenga.

Un magazzino di smistamento di Amazon (Getty Images)
Un magazzino di smistamento di Amazon (Getty Images)

La scalata ad Amazon

La pubblicità, tuttavia, rappresenta una voce sempre più importante anche per le piattaforme che non sono nate come collettori di annunci. Prendiamo Amazon. Nel bilancio 2018 i ricavi “altri” del colosso dell’ecommerce, voce sotto cui rientrano i servizi di pubblicità, sono quintuplicati in due anni, dai 2.950 miliardi del 2016 agli oltre 10mila miliardi del 2018.

L’investimento in pubblicità dei venditori su Amazon è più che raddoppiato (+117%) tra il 2017 e il 2018, come spiega a Wired Witailer (agenzia di marketing specializzata in ecommerce). Così, se si apre la piattaforma nel Regno Unito (Witailer ha effettuato un’analisi il 13 gennaio 2020 appositamente per Wired) e si cerca, per esempio, una macchina del caffè, le prime sette posizioni sono occupate da prodotti sponsorizzati. E “solo due risultati organici appaiono nella parte superiore della pagina”, spiegano da Witailer. Negli Stati Uniti, invece, i prodotti “Amazon Choice” (che usa anche Alexa per il voice shopping) “ottengono più visibilità pur non corrispondendo esattamente alle parole chiave cercate”, aggiungono.

Il posizionamento di prodotti sponsorizzati sulla home page di Amazon Uk (analisi Witailer per Wired)
Il posizionamento di prodotti sponsorizzati sulla home page di Amazon Uk (analisi Witailer per Wired)

Il risultato? Che per vendere bene occorre spartirsi un posto al sole. Da Witailer spiegano che alcuni loro clienti in media “investono dal 5% al 15% del fatturato in ricerche sponsorizzate”, le quali generano dal 30% al 50% delle vendite, con un rapporto investimento-fatturato fino al 5%. Fino a metà degli affari, insomma, può dipendere dalle caselle più in vista a pagamento. Le sponsorizzazioni, insieme alle ottimizzazioni della pagina del prodotto, sono uno degli input su cui i venditori possono lavorare su Amazon per migliorare il proprio ranking. Usare le parole chiave giuste è uno dei trucchi. I venditori cinesi, per esempio, sono molto bravi. Se cerchi power bank su Amazon.it (dati della ricerca Witailer), i primi 12 risultati organici sono di venditori del Paese di mezzo e il primo non cinese arriva alla posizione 25.

Il posizionamento di venditori cinesi su Amazon.it cercando power bank (analisi Witailer per Wired)
Il posizionamento di venditori cinesi su Amazon.it cercando power bank (analisi Witailer per Wired)

Amazon ha fatto sapere a Wired di essere al lavoro sul regolamento europeo. E certo uno dei capitoli su cui dovrà intervenire è quello della buy box, ossia il riquadro in pagina da cui un consumatore può iniziare l’acquisto. Se più venditori offrono lo stesso prodotto, Amazon concede la buy box, la “poltronissima” a chi che offre “standard molto elevati”. Quali? “Amazon rende noti i criteri ma non il peso specifico di ciascuno”, spiegano da Witailer. Contano: prezzi competitivi, disponibilità immediata, spedizione gratuita, Amazon Prime, servizio clienti eccellente. Ma cosa succede quando un venditore offre un parametro identico ad Amazon, per esempio prezzo o velocità di consegna? Il 13 gennaio Witailer ha osservato il caso di una confezione Lego Technic: Amazon ha inserito in buy box la sua offerta, pur essendo la terza su 25 per prezzo e costi di spedizione e, come la seconda, subito disponibile e nel programma Prime. Ha, insomma, scavalcato i concorrenti. Finora ha potuto farlo senza opposizione. Da luglio, se tutti i tasselli andranno al loro posto, dovrà spiegare perché.

Un caso di buy box su Amazon (Analisi Witailer per Wired)
Un caso di buy box su Amazon (Analisi Witailer per Wired)

Il cuore del mistero

Per Roberto Liscia, presidente di Consorzio Netcomm, l’associazione che riunisce le imprese italiane dell’ecommerce, la sfida tra venditori e marketplace non si gioca solo sul ranking.Il mercato del digitale si sposta su modelli predittivi, l’intelligenza artificiale serve per anticipare consumi e intenzioni. La trasparenza passerà anche dal capire i modelli comportamentali degli algoritmi”, spiega. L’algoritmo, però, è l’unico elemento su cui il regolamento alza le mani: le piattaforme non sono obbligate a svelarlo. D’altronde è un segreto industriale troppo importante per essere sbandierato ai quattro venti. Là, però, si gioca gran parte della partita, che rimarrà un mistero.

In compenso termini e condizioni del servizio dovranno diventare trasparenti. Le piattaforme sono tenute ad anticipare quindici giorni prima ogni modifica e ad annunciare con trenta giorni di preavviso la chiusura del servizio. Nessun profilo potrà essere oscurato senza una giusta causa, messa nero su bianco in precedenza, e senza dare al titolare la possibilità di contestarla e di spiegare le sue ragioni. Infine, le piattaforme dovranno abbandonare ogni comportamento arbitrario.

Il tentativo è di arrivare a un giusto compromesso”, spiega Marco Berliri, partner dello studio legale Hogan Lovells specializzato in information technology: “Oggi in caso di sospensione non hai possibilità di capire perché e poterti difendere. La posizione delle grandi imprese è: più utenti ho, meglio è, ma se te lo dico, tu lo aggiri. Mentre il regolamento impone la possibilità di difendersi”. Il giudizio, aggiunge, “dovrà essere affidato a organismi di mediazione terzi”.

Ferrari, per esempio, ricorda come “da ristoratore, è un’impresa mettersi in contatto telefonico con TripAdvisor per ricevere assistenza in caso di necessità. I ristoranti sono infatti visti come fornitori da queste piattaforme, ovvero un tramite per raggiungere i clienti finali”. E, aggiunge, “il meccanismo di oscuramento o de-indicizzazione non è espresso chiaramente da nessuna parte”.

Nel settore alberghiero, invece, Luthe cita il caso dell’early payment benefit di Booking. Ossia uno sconto che la piattaforma offre ai clienti “indipendente e senza accordo con l’albergo”. Il cliente ottiene la camera a un prezzo ridotto mentre l’hotel incassa quello pieno. “L’unico modo che gli alberghi hanno per evitare che Booking interferisca con i loro prezzi e le loro offerte è disabilitare il pagamento online”, racconta il presidente di Hotrec. Opzione che la piattaforma, chiosa, non divulga.

Pozzi di petrolio

L’ultima novità del regolamento riguarda i dati degli utenti, “che entro il 2020 devono essere resi accessibili dalle piattaforme alle imprese”, spiega Liscia. La Commissione riconosce che “la capacità di accedere e utilizzare i dati, compresi quelli personali, può consentire la creazione di valore rilevante nell’economia delle piattaforme online”. Le quali, però, si guardano bene dal condividerli con i venditori. Per Bruxelles anche questa asimmetria deve finire: i venditori devono poter avere accesso ad alcuni dati e anche sapere se le piattaforme li monetizzano a loro insaputa. “In Italia ci sono 30mila aziende che vendono tramite le piattaforme e la loro capacità di definire i comportamenti impone alle imprese una limitata capacità di negoziazione”, spiega Roberto Liscia.

Per Ferrari questo è “uno dei temi più sottovalutati in assoluto”, perché “su questi dati, ai quali – salvo rare occasioni – il ristoratore non ha accesso, le piattaforme costruiscono imponenti campagne di marketing e fotografano trend con una precisione impressionante”. Glovo, per esempio, dichiara che “i dati degli utenti possono essere condivisi con i partner solo al fine di completare l’ordine”. Anche se poco dopo ammette che “informazioni più specifiche possono essere condivise al termine di una promozione per valutare l’impatto sulle principali metriche”. Da luglio la musica cambia. O almeno questo è quello che spera Bruxelles per contenere il potere dei colossi digitali. D’altronde, la posta in gioco è alta: in Euopa lo shopping online, dati fondazione Ecommerce Europe alla mano, nel 2019 ha raggiunto i 621 miliardi di euro di vendite.

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