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lunedì, Ott 21

Edward Norton e il suo trionfo da regista con Motherless Brooklyn: “Ho letto quel personaggio e ho voluto farlo mio”


Il secondo film da regista di Edward Norton è uno dei progetti cui più teneva per ragioni umane, professionali e familiari

Erano anni che Edward Norton inseguiva l’idea di realizzare Motherless Brooklyn. Un film da regista dopo il modesto esordio in quel ruolo decenni fa con Tentazioni d’amore, che sentiva profondamente di dover fare. C’è di mezzo il legame con il nonno, ma anche il grande cinema del passato richiamato dall’ambientazione e dal genere, un legame potentissimo con New York e (si sente molto nel film), uniti a una voglia incredibile di raccontare questa storia e interpretare questo ruolo.

Motherless Brooklyn è stato il film d’apertura alla Festa del cinema di Roma dove l’autore e attore è venuto per presentarlo in pompa magna. E davvero è un film di quelli che a oggi è raro vedere al cinema (uscirà il 7 novembre), una storia che viene da un romanzo (Brooklyn senza madre, di Jonathan Lethem), trattata con un bilanciamento tra spettacolo e serietà che sembra esistere solo nelle serie tv. Si capisce davvero come mai l’abbia inseguito così a lungo, anche solo dalle caratteristiche del suo personaggio.

Questi sono quei film che un attore vuole dirigere per poterli interpretare o sbaglio?

“Già l’idea di un detective con la sindrome di Tourette, appena l’ho letta nel romanzo, mi sembrava una cosa perfetta per me. Poi la maniera in cui quel libro ti fa entrare nell’emotività della storia è fantastica. Già all’inizio questo personaggio ti dice tutto di sé e riesci a vederlo dall’esterno. Quando ho letto il romanzo ho capito che faceva quel che ogni film sogna: metterti dalla parte del personaggio in pochi secondi e ho pensato che, se riuscivo a farcela, avrei conquistato immediatamente il pubblico, una cosa che poi ti permette di portarlo ovunque. È quello che fa Forrest Gump: ti presenta qualcosa di strano e ti porta con sé”.

Una delle cose incredibili del film è Alec Baldwin. Sono anni che si è dato alla commedia e ci siamo dimenticati che incredibile attore drammatico sia…

“Non io, non l’ho dimenticato affatto!”.

E si vede. E stato difficile convincerlo a tornare a questo tipo di ruoli, come quello che aveva in Americani?

“Penso proprio che sia stato felice, perché mi ha risposto immediatamente dopo aver ricevuto la proposta. Sono anni che io e Alec dialoghiamo con gran rispetto, anche perché viviamo uno di fronte all’altro e ci incontriamo continuamente al café sotto casa. Pensa che quando arrivai a New York, lui era a Broadway con Un tram chiamato desiderio ed era fantastico, con il gran peso di un attore drammatico. Erano proprio gli anni di Americani. Quella è stata la maniera in cui io l’ho sempre visto”.

Ci sono Bruce Willis, Willem Dafoe e molti altri attori con cui hai lavorato in passato. È stato questo uno dei criteri che ti ha guidato? Fare film con attori che conosci bene?

“Molto del casting è stato facile, almeno nella mia testa. Questi attori già li vedevo nella parte, perché sapevo che avevano quelle qualità, per l’appunto avendoci lavorato in film o a teatro. Bruce Willis è il boss cool, il fratello maggiore che tutti vorrebbero, chi più di lui? Uno che anche solo quando gira l’angolo ti viene da dire ‘Ecco quello è l’investigatore!‘. Solo Gugu Mbatha-Raw l’ho scelta senza conoscerla, perché mi serviva un’attrice non molto nota e non volevo una pop star: volevo una persona misteriosa che si riveli con il tempo. Il protagonista è attratto da lei e vuole conoscerla. Avendo un volto non noto, anche noi riusciamo a scoprirla nella stessa maniera in cui lo fa il protagonista”.

New York è fondamentale nel film…

“E la gente non si rende conto di quanti effetti visivi ci siano. Pensi che abbiamo girato nella vera Penn station, e invece è tutto ricostruito”.

Però si capisce che è un film fatto proprio per raccontare la città.

“Mio nonno [James Rouse, ndr] era un urbanista abbastanza famoso, noto per essere stato uno dei pochi, negli anni ‘50 e ‘60, a dire che il tessuto dei quartieri andava preservato e che le città andavano rivitalizzate a partire dalle comunità di persone, altrimenti si sarebbe andati incontro a conflitti. Negli anni ‘70 era considerato un guru dai progressisti, perché aveva predetto molti dei danni fatto dal concentrarsi invece sulle strade. Vide quello che sarebbe successo azzerando le comunità per costruire case popolari e predisse che sarebbe risultato nelle peggiori baraccopoli del mondo. E aveva ragione. Ho lavorato per lui appena uscito dal college e molto di quel che c’è nel film l’ho imparato in quegli anni. Il personaggio di Willem Dafoe esprime i suoi valori, alcune delle sue battute vengono proprio dai discorsi di mio nonno. Penso che gli piacerebbe come il film esprime quelle che lui riteneva dovessero essere delle priorità”.

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