Seleziona una pagina
giovedì, Nov 26

Elegia americana, una storia di redenzione con troppi cliché per convincere



Da Wired.it :

Film pensato apposta per gli Oscar dove il dramma è già nei toni ancor prima che la vicenda si evolva e la recitazione finisce per essere sopra le righe. Disponibile su Netflix

A furia di rincorrere i premi, a furia di aspirare al massimo livello di riuscita e di legittimazione culturale si finisce facilmente dall’altra parte, nella palude del ridicolo. Così succede a Elegia americana, il film di Ron Howard uscito su Netflix e pensato come un arpione per la lotta agli Oscar, la testa d’ariete nella categoria Miglior attrice grazie a Amy Adams e Glenn Close. Anche il romanzo di partenza, autobiografico, era stato scelto con cura tra i pamphlet adorati dalla parte democratica dell’America quando nel 2016 sembrava che fosse il testo fondamentale per capire cosa era successo alle ultime elezioni.

Doveva essere l’apoteosi democratica, il film con il risvolto politico, la tenerezza umana, lo scavo nell’America profonda, il racconto del sogno americano del protagonista che si eleva da un contesto difficile e trova il successo, la sintesi di tutto quello che è un film da Oscar. E invece è andato dall’altra parte, ha sforato con tutto, dalle intenzioni alla realizzazione, fino a diventare la parodia di un film da Oscar, tempestato di interpretazioni esagerate e così infarcito di momenti grandi, di scene clamorose, di sfuriate e di pianti, di momenti catartici e strappapplausi (casalinghi, perché va su Netflix) da essere sfuggevole e mai concreto.

La storia è quella di J. D. Vance, studente di successo di Yale che ricorda i suoi 13 anni, la sua formazione difficile con una famiglia di campagnoli dell’Ohio, tutta accento, urla e faide (si vanta anche del fatto che la sua famiglia ha fatto partire una delle faide più note del paese). Una madre che con il tempo diventa dipendente dall’eroina, una nonna che ha avuto un matrimonio difficile, la difficoltà nel prendersi cura delle esplosioni di follia della madre, la morte del nonno e poi la sorella chiudono il cerchio delle difficoltà sentimentali negli anni della formazione. È tutto un costante melodramma senza sosta e senza la capacità di dosare le forze come si dovrebbe fare in una maratona, sapendo quando accelerare e quando invece rifiatare.

Guardando Elegia americana si ha l’impressione di non afferrare mai il cuore del film, di non essere mai coinvolti in una storia ma di stare guardando un dietro le quinte. La differenza sta nel fatto che invece di osservare personaggi osserviamo attori che interpretano personaggi, si ha sempre l’impressione di scorgere l’artificio invece di essere immersi nella finzione. Glenn Close con un trucco pesante che esagera le espressioni e Amy Adams che esplode di follia vanno nella medesima direzione, quella dello stereotipo. Per questo sembrano una parodia, perché cavalcano, esagerandolo, il tipico stile e modus recitandi degli attori in cerca di ruoli intensi. Loro, che invece in carriera sono state il contrario.

Ma ancora di più ad infastidire è la pretesa molto altolocata, molto cittadina, urbana e sofisticata di abbassarsi e andare a fare questa pantomima dei campagnoli. È decisamente più onesta Hollywood quando li prende in giro o quando li usa come spauracchi. È più sincero Un tranquillo weekend di paura, in cui i campagnoli sono pericolosi, spaventosi e mostruosi o Non aprite quella porta o Le colline hanno gli occhi. Sono più amorevoli I Simpson con Cletus e Brandine o qualsiasi altro film che ne stigmatizzi le caratteristiche più evidenti. Perché invece Elegia americana fa un giro di parole ampio per separare gli Stati Uniti da questa parte così facinorosa. Il suo protagonista che si emancipa da loro per diventare una persona equilibrata è proprio la parte più ipocrita che finge di rimanere vicino alle sue origini ma le disprezza.

Certo questo film nasceva per spiegare chi sono le persone che hanno votato Trump, per farlo ne racconta la suscettibilità, le narra come “anch’esse” creature del Signore, donne e uomini in difficoltà che vanno capiti. È il cinema davvero meno umano e più calcolato, quello che parte dagli uffici di produzione con obiettivi di marketing e chiare intenzioni che non riesce mai mascherare. Meglio a questo punto The Fighter di David O. Russell, che almeno ha il coraggio di andare così vicino da perdersi nei meandri di una famiglia di white trash fino a che non è più possibile dire se il film prenda le loro parti o no, se si senta distante o stia con loro. È meglio il cinema italiano, che con lo stesso sbilanciamento tra autori e soggetti sa però andare a guardare chi non conosce, chi è diverso da sé con una reale umanità e una partecipazione completamente diverse, includendo e non escludendo.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]