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martedì, Ott 19

Europa, con aiuti pagati sorveglianza digitale in Africa e nei Balcani



Da Wired.it :

Sei ong denunciano gli investimenti della Commissione europea e di agenzie come Frontex e Cepol alla mediatrice comunitaria per l’uso di fondi di sostegno per acquistare dispositivi e corsi di spionaggio

Sorveglianza (foto: Luca Zorloni/Wired)
Sorveglianza (foto: Luca Zorloni/Wired)

Nel 2019 sulle scrivanie della direzione generale Near della Commissione europea, che si occupa delle relazioni di vicinato e dei progetti per allargare l’Unione, arriva un progetto da 46,3 milioni di euro per la gestione di frontiere e flussi migratori in Libia. A finanziarlo per la quasi totalità è lo European union trust fund for emergency in Africa, un fondo dell’Unione istituito nel 2015 e costituito per l’80% da aiuti umanitari per indirizzare risorse alle sviluppo socio-economico del continente. E che nel 2017 prende sotto la sua ala anche il dramma in Libia, con un programma di 90 milioni per tutelare i migranti e sostenere la rinascita del Paese. Ma a leggere dove vanno a finire circa 20 milioni dei 46,3 del progetto alla direzione Near, a cui contribuisce con 2 milioni anche l’Italia, si scopre che il Fondo per l’Africa è stato usato anche per pagare “formazione per la guardia costiera libica” e la manutenzione della flotta, “integrare le capacità dei pattugliatori con stazioni radar esistenti o nuove lungo la costa” e fornire nuovi gommoni, suv, autobus, ambulanze, dispositivi per le comunicazioni radio-satellitari e giubbotti antiproiettile.

E non è l’unico caso. Il 6 marzo 2018 a Varsavia l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, Frontex, incontra inviati del governo italiano e della Missione di assistenza ai confini della Libia voluta da Consiglio dell’Unione europea. Tema della riunione è un corso per 20 membri dell’equipaggio della cosiddetta guardia costiera libica, che saranno impiegati su tre imbarcazioni che l’Italia sta riparando per donarli al governo guidato da Fayez Serraj.

Nelle tre settimane di formazione gli organizzatori, tra cui l’ufficio per la cooperazione internazionale del ministero dell’Interno e la scuola di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza, insegneranno ai partecipanti anche come assicurare “prove per scopi di indagine o di spionaggio”, con l’ausilio di strumenti elettronici, come raccogliere dati biometrici, come le impronte digitali, “anche da bambini e persone vulnerabili” e tecniche di difesa che “possono essere usate nell’arresto di sospettati a bordo”. Il tutto pagato con il sostegno del solito Fondo per l’Africa. E, soprattutto, senza tenere conto del pericolo che l’acquisizione di questi strumenti e competenze potrebbe comportare in termini di abusi sui migranti, ampiamente documentati nei campi di detenzione libici.
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Una valutazione del rischio effettuata per il corso non identificava alcuna possibilità che il programma potesse facilitare abusi dei diritti umani o minare la reputazione locale dell’Unione europea, a dispetto delle prove del fatto che le autorità libiche abbiano sparato o picchiati i migranti a bordo delle imbarcazioni o minacciato le organizzazioni non governative e dei rapporti che provavano come le persone fossero rinchiuse in campi di detenzione stipati, dove dilagavano le malattie e soggetti a gravi violazioni dei diritti umani, compresi stupri e torture”, si legge nel reclamo formale presentato all’ufficio della mediatrice europea, Emily O’Reilly, che sovrintende l’ente incaricato di indagare sulle denunce di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni dell’Unione, da parte di sei organizzazioni non governative: Privacy international, Access now, The Border violence monitoring network, Homo digitalis, la Federazione internazionale dei diritti umani (International federation for human rights) e Sea-watch.

Da una presentazione di Cepol (Privacy International)
Da una presentazione di Cepol (Privacy International)

Il fondo per l’Africa usato per la sorveglianza

Il caso italiano è uno dei tanti finiti nelle carte ottenute e rese pubbliche dalla coalizione di ong, che denuncia l’esportazione di competenze e tecnologia di sorveglianza da parte dell’Unione europea verso paesi terzi, specie in Africa e nei Balcani, in barba alle stesse regole comunitarie. Secondo l’accusa, basata su decine di documenti ottenuti con richieste di accesso e corrispondenze, Bruxelles sta finanziando il potenziamento di apparati di controllo invasivi, utilizzati dai beneficiari per violare la privacy degli individui, reprimere il dissenso e schiacciare altre libertà fondamentali.

Senegal, 2018: 28 milioni di euro del Fondo per l’Africa vanno alla costruzione di una banca dati di identificazione biometrica. Un progetto finanziato senza uno studio dei rischi a monte, denunciano le ong. Nello stesso anno alla Giordania Bruxelles assicura 11 milioni per software e sistemi informatici di indagine. Soldi allocati senza sapere che tipo di tecnologia verrà acquistata, si legge nel reclamo. Stessa cifra al Libano per finanziare unità armate che pattuglino i confini.

Da una presentazione di Cepol (Privacy International)
Da una presentazione di Cepol (Privacy International)

Finanziamenti a est

Nel 2016 l’Unione europea si decide a rafforzare il confine tra Ucraina e Bielorussia e sgancia quasi 800mila euro su 946mila complessivi per un “sistema intelligente di video-controllo” al punto di frontiera di Novaya Huta-Novi Yarylovychi. Le carte del progetto descrivono l’adozione di un software, Prinex, finanziato sempre con fondi europei dal 2015 e utilizzato per scambiarsi tra dogane una serie di dati sulle merci in arrivo: tipo di prodotti trasportati, peso, modello del veicolo di consegna, targa.

Quando il camion arriva alla frontiera, telecamere ai varchi fotografano il mezzo e gli occupanti per abbinare e confrontare i dati raccolti con l’instantanea con quelli comunicati in anticipo e presenti in archivio per accertare che tutto corrisponda. Per attivare le nuove dogane smart, si legge nelle carte, “ci si aspetta che circa il 60% dei fondi del progetto saranno spesi su beni come camere connesse in rete, equipaggiamenti per il riconoscimento dei numeri delle targhe dei veicoli e software“.

Alla Bosnia, invece, nel 2019 Frontex si organizza per fornire dispositivi per la raccolta delle impronte digitali. Un appalto che resta fermo per un anno e su cui le carte raccontano poco, se non che a vincere l’appalto era stata la multinazionale giapponese Nec, che poi si tira indietro per “mancanza di capacità“, perché i documenti arrivano alle ong con molte parti oscurate. A causa della pandemia, la raccolta dei documenti è stata più lunga del previsto e non in tutti i casi le istituzioni europee interpellate, ossia Commissione, Frontex, Servizio europeo di azione esterna (il braccio diplomatico di Bruxelles) e l’Agenzia dell’Unione per la formazione delle forze dell’ordine (Cepol), hanno fornito tutti i dati richiesti.

Da una presentazione di Cepol (Privacy International)
Da una presentazione di Cepol (Privacy International)

A lezione di spionaggio

Cepol, in particolare, era già finita nei radar di Privacy International per i suoi corsi di formazione con cui allena le polizie di Paesi balcanici e africani a usare tecniche di spionaggio e tracciamento per spiare i cittadini su internet e sui social media. In questo dossier emerge per esempio che, dal 21 al 25 aprile 2019, l’agenzia comunitaria insegna a esponenti della Gendarmeria algerina a usare tecniche di open source intelligence per sorvegliare la rete. In particolare il documento si sofferma sull’estrazione di metadati delle comunicazioni e sul ricorso ad account falsi, spiegando come usare strumenti di editing per le immagini e come tenere vivo il profilo perché sembri reale.

Mentre si stava svolgendo il seminario, ricordano gli attivisti, in Algeria “un grande movimento di protesta, conosciuto come la Rivoluzione del sorriso, era in corso, culminando con le dimissioni del presidenter Abdelaziz Bouteflika dopo 20 anni al potere. Quella che è seguita è stata un’ondata di disinformazione online e censura, guidata da reti di account falsi pro-regime che postavano propaganda e segnalavano i profili dei principali attivisti. Sebbene non vi siano evidenze che qualcuna tra queste reti di troll sia stata gestita dai partecipanti alla formazione, la promozione di tecniche per silenziare le voci pro-democrazia da parte dell’Unione europea in un Paese vicino chiave deve far suonare un campanello di allarme. Nessuno dei documenti ricevuti da Cepol indica che sia stata fornita anche adeguata formazione per assicurare l’uso di questi strumenti di sorveglianza in un modo rispettoso dei diritti umani“.

Pochi mesi dopo Cepol è in Marocco per fornire assistenza su come inseguire i propri obiettivi sui social network. Di Facebook si legge nella presentazione: “Aiuta gli stalker dal 2004“. L’agenzia elenca una serie di strumenti per estrarre dati dalle piattaforme e per costruire grafi sociali. In Montenegro, invece, Cepol si dedica anche agli Imsi catcher, dispositivi che consentono di intercettare le comunicazioni mobili. Un tipo di tecnologia che spiega spesso nei suoi corsi, sebbene l’anno scorso Parlamento europeo e Consiglio si siano accordati per limitare l’esportazione di beni a duplice uso (fuor di burocrazia, quelli hanno un uso prettamente civile, ma che potrebbero essere anche impiegati per scopi militari, come droni o agenti chimici) come tecnologie biometriche, Imsi catcher, trojan, spyware o programmi di intrusione. I limiti, tuttavia, sembrano non valere quando l’Europa va da sé a insegnare come usare questi prodotti.

La richiesta di un’indagine

Ora le ong chiedono alla mediatrice di indagare sulle agenzie e sui processi messi in pratica per impedire abusi connessi al finanziamento di tecnologie intrusive e competenze di spionaggio e tutelare i diritti umani. “Gli enti europei devono assicurare il rispetto dei diritti umani nelle loro relazioni esterne, per esempio verificando i rischi che le loro azioni possono causare ai diritti umani – osserva Ioannis Kouvakas, responsabile legale di Privacy international -. Ma questi controlli mancano quando si trasferiscono risorse per la sorveglianza fuori dall’Europa“. Per questo, gli fa eco Marwa Fatafta, responsabile politiche per Medio Oriente e Nord Africa di Access now, “chiediamo controlli da parte della mediatrice europea“.

Se il finanziamento “alla cosiddetta guardia costiera libica non è nient’altro che una sistematica violazione dei diritti umani“, osserva Bérénice Gaudin, responsabile advocacy di Sea-Watch, in generale c’è una contraddizione di fondo con i principi fondanti dell’Unione. “Non solo i trattati specificano che l’Unione, nella sua azione esterna, deve mirare a far avanzare la democrazia, lo stato di diritto, l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani – osserva la rappresentante permanente presso l’Unione della Federazione internazionale per i diritti umani, Gaelle Dusepulchre – ma che l’Unione ha l’obbligo di rispettare i diritti umani“. E senza un controllo a monte, conclude Manos Papadakis, cofondatore di Homo Digitalis, la fornitura di tecnologia e competenze di sorveglianza “può costituire una grave minaccia”.





[Fonte Wired.it]