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giovedì, Feb 17

Eutanasia, l’Italia decide ancora di non decidere



Da Wired.it :

Per la terza volta, il 15 febbraio 2022, la Corte Costituzionale è intervenuta in modo estremamente profondo sull’eutanasia. La prima fu nel 2018, con l’ordinanza numero 207: la Consulta, ricordando altre sentenze sul tema emesse negli anni passati anche all’estero, paventava la potenziale illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, intavolando un dialogo con il Parlamento al fine di colmare un grave vuoto legislativo. Così, come troppo spesso accade in questo paese, da costringere il massimo organo di garanzia della Carta a sostituirsi a chi deve fare le leggi. I primi passi di quel pronunciamento arrivavano dal processo all’attuale tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, il leader radicale Marco Cappato, per le vicende legate al suicidio in Svizzera di Fabiano Antoniani. In quell’occasione la Corte rinviò il giudizio in corso di 11 mesi, spingendo la politica a provvedere su un tema così importante.

Quella legge non è arrivata e così, un anno dopo, con la sentenza 242 del 2019, la Corte dichiarò illegittimo l’articolo 580 del codice penale che si occupa di istigazione o aiuto al suicidio – in particolare trovandolo in contrasto con gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione – nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio secondo le modalità previste dalla legge 219 del 2017, cioè la legge sul consenso informato e su disposizione anticipate di trattamento. 

Sì, quella sul testamento biologico. Che, tenete presente questo aspetto, rimane dunque il perimetro per poter procedere insieme ad altri quattro requisiti chiaramente esplicitati: il proposito deve essersi autonomamente e liberamente formato, la persona dev’essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale nonché “affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. 

La sentenza Cappato

Quella sentenza storica, sulla base della quale Cappato fu poi assolto nel processo sull’aiuto fornito a Dj Fabo e poi, con Mina Welby, in un caso analogo relativo a Davide Trentini, per quanto nei poteri della Corte Costituzionale spostava i confini dell’autodeterminazione personale. Disegnandoli non più intorno al semplice rifiuto o all’interruzione dei trattamenti sanitari ma aprendo la porta alla ricerca attiva di una soluzione per porre fine a un’esistenza di sofferenze senza speranza anche con l’aiuto di qualcuno non più punibile se in grado di agire entro i confini visti poco sopra. Ma pur sempre procedendo autonomamente all’atto pratico del suicidio e non all’eutanasia attiva e diretta come previsto in diversi paesi come Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna.

Se, infatti, per eutanasia attiva si intende la possibilità di ricevere la somministrazione di sostanze letali da parte di un medico, nell’eutanasia passiva è l’astensione o interruzione da ogni intervento medico che tenga in vita il paziente in preda alle sofferenze a provocarne il decesso. Il suicidio assistito è infine un aiuto medico ma anche pratico offerto a un paziente che ha deciso di morire tramite suicidio, ma senza intervenire attivamente nella somministrazione. A completezza di cronaca c’è da dire però che l’interpretazione di queste procedure da parte dei promotori del referendum, leggendo i materiali promozionali diffusi nei mesi scorsi, differisce però, almeno in parte, da queste definizioni.

Con una situazione ancora ferma al solo testamento biologico e un sostanziale stallo su una legge sul suicidio assistito (che, appunto, è cosa diversa e per il momento solo in parte consentita dalla sentenza del 2019) i radicali, l’Associazione Coscioni e altre organizzazioni hanno raccolto le firme, anche online, per ottenere attraverso un referendum abrogativo una situazione più simile a quelle dei quattro paesi all’avanguardia che agli altri. Se il quesito fosse stato approvato, e magari la parte dell’articolo 579 del codice penale – quello in questione – effettivamente abrogata, il nostro paese avrebbe compiuto un triplo carpiato in termini di diritti civili. Non colmando ma scavalcando un vuoto che dura dalla prima proposta di legge del 1984. Questo non è avvenuto e, per questa strada, non potrà più avvenire.

Riavvolgiamo il nastro

Era la IX legislatura, al governo c’era Bettino Craxi e il primo firmatario Loris Fortuna, ex partigiano, socialista e protagonista insieme ad Antonio Baslini della legge sul divorzio, il 19 dicembre 1984 depositava la relazione alla proposta di legge 2405. Fu la prima a lanciare il dibattito sul fine vita. Un percorso che, fra mille contraddizioni, veti, influenze del Vaticano, confusioni giuridiche e perfino linguistiche oltre che forte scollamento dalla sensibilità degli italiani arriva fino all’attuale verdetto. Con cui la Corte presieduta da Giuliano Amato toglie il quesito dal tavolo: abrogando la parte dell’articolo 579 del codice penale, quello che punisce l’omicidio di una persona consenziente, disinnescandone la punibilità in caso appunto di consenso e mantenendola solo in casi specifici come minore età, infermità di mente o consenso estorto, “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.



[Fonte Wired.it]