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giovedì, Dic 12

Facebook riapra la pagina di CasaPound: sentenza, reazioni, dettagli


Con una sentenza datata 11 dicembre 2019 (pdf), a firma del Giudice Stefania Garrisi, Facebook si trova costretta a riabilitare la pagina di CasaPound Italia ed il profilo personale di Davide Di Stefano, fissando inoltre in 800 euro la penale per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione di questa decisione (al momento, infatti, la pagina non risulta ancora riattivata). Questi i fatti, la cui interpretazione appare però oltremodo complesse, peraltro da analizzare sotto una molteplicità di piani interpretativi.

Una cosa è certa: bisogna tentare di allontanare le ideologie politiche da questa analisi, tentando di ignorare il significato che qualsivoglia decisione possa avere dal punto di vista politico. Non si può invece ignorare che questa questione abbia fortemente a che fare con la politica, perché sono le stesse parti in causa a definire politica la vicenda: lo afferma CasaPound lo riafferma il giudice e Facebook dovrà ora prenderne atto. Da questa vicenda ne uscirà qualcosa di nuovo, afferente alla libertà di espressione e soprattutto attenente i limiti della libertà stessa.

La sentenza

Per capire la sentenza (e si raccomanda lo sforzo di parzialità nei confronti dell’ideologia politica, altrimenti non è possibile pesare la sentenza nella sua essenza) occorre partire dai fatti antecedenti e da queste considerazioni scritte in nero su bianco dal Giudice:

È evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra FACEBOOK e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finchè non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente.

Il Giudice, insomma, attribuisce a Facebook una responsabilità che va oltre il semplice rapporto tra privati, estendendo la sua funzione ad una vera e propria responsabilità sociale. “Il rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali costituisce per il soggetto FACEBOOK“, continua il Giudice, “ad un tempo condizione e limite nel rapporto con gli utenti che chiedano l’accesso al proprio servizio“. Di fatto, quindi, a Facebook si vieta la possibilità di escludere un partito politico dalla possibilità di esprimersi sulla piattaforma, sia pur se in violazione delle policy, in virtù del fatto che l’esclusione dal social network implica una riduzione degli spazi espressivi in un momento in cui quasi 3 miliardi di persone gravitano sulla piattaforma stessa.

La sentenza smonta inoltre una ad una le tesi portate avanti da Facebook in aggiunta alla semplice violazione delle policy: il social network avrebbe infatti tentato di dimostrare come CasaPound si fosse macchiata di “contenuti di incitazione all’odio e alla violenza attraverso la promozione, nella pagine di Casapound, degli scopi e delle finalità dell’Associazione stessa“. A tal riferimento secondo il Giudice “non è possibile affermare la violazione delle regole contrattuali da parte dell’Associazione ricorrente solo perché dalla propria pagina sono stati promossi gli scopi dell’Associazione stessa, che opera legittimamente nel panorama
politico italiano dal 2009“.

Il Giudice, insomma, nega responsabilità oggettive che, nate dai comportamenti di eventuali affiliati al partito, possano scaricarsi sulla pagina in oggetto. Inoltre i comportamenti tenuti sul social network vanno ascritti alla libertà di espressione, chiedendo tra le righe che il giudizio possa essere affidato ad entità esterne.

La sentenza non può che avere quindi un’univoca conclusione: la richiesta di CasaPound viene accolta totalmente, le spese legali sono a carico di Facebook e le pagine andranno riattivate.

Le reazioni

Simone Di Stefano, vincitore di questo round, sbatte in faccia la sentenza ai “globalisti”, dando quindi chiaramente sapore politico alla decisione:

Così invece Davide Di Stefano, che illustra il punto di vista de Il Primato Nazionale sulla vicenda:

La prima lettura di David Puente (più volte tirato in ballo dai membri di CasaPound in virtù delle sue precedenti dichiarazioni in occasione della prima sentenza) è prettamente giuridica:

Puente, insomma, vede in questa sentenza semplicemente la mancata capacità di Facebook di dimostrare la bontà della propria decisione di ban. La controparte vede invece in questa decisione una priorità della Costituzione sul regolamento privato di una azienda straniera. Non è che l’inizio di un dibattito destinato a farsi serrato, per una sentenza che nelle sue numerose zone d’ombra potrebbe aprirsi a svariate strumentalizzazioni.

Nei panni di Mark Zuckerberg

Se mai un giorno questa vicenda dovesse arrivare sotto gli occhi di Mark Zuckerberg, cosa dovrebbe pensare il numero 1 di Facebook della situazione italiana? Da una parte, infatti, si chiede a Facebook un interventismo sempre più radicale ed immediato, invocando la cancellazione di contenuti violenti, frasi d’odio, insulti, razzismo, incitazioni al terrorismo e altre pericolose deviazioni; dall’altra si punisce il social network quando tenta di fare pulizia giudicando (peraltro sempre con manica estremamente larga) pagine che si fanno portatrici dei medesimi contenuti che da altre parti si vorrebbero filtrati a priori.

La discriminante sembra essere in questo caso il connotato politico, ossia: laddove un’idea sia rappresentata da un movimento politico, il social network dovrebbe concedere maggiori libertà di espressione rispetto a quelle concesse ad un cittadino privato. A quale titolo si dovrebbe creare una discrepanza simile? Ancora una volta, si invita alla riflessione al netto del colore e della rappresentanza politica il oggetto: un social network dovrebbe concedere maggiori spazi di espressione ad un partito invece che ad un privato? Una piattaforma privata dovrebbe concedere (peraltro gratuitamente) i propri spazi alla politica, anche se in violazione delle policy, anche se privo di rappresentanza in Parlamento (e dichiaratamente fuori dalle corse elettorali)? Quali obblighi ricadono su un social network in termini di spazio sociale?

Mettiamoci nei panni (comodi per certi versi, particolarmente scomodi sotto altri punti di vista) di Mark Zuckerberg: dove va posta la linea sottile che separa chi può da chi non può, il lecito dall’illecito, il consentito dal non consentito?

Si tratta senza ombra di dubbio di una sentenza destinata a far discutere. Destinata ad essere ulteriormente smontata e reinterpretata. Destinata ad essere tirata per la giacchetta dall’intero mondo politico, per dimostrare tesi antitetiche e spostando una volta di più la discussione dall’oggetto vero del contendere, bene collettivo a disposizione di tutte le opinioni: la libertà di espressione, i suoi limiti, la sua forza, le sue fragilità ed il suo fondamentale ruolo per gli equilibri democratici.





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