Ultimamente però, la Rai ha deciso di puntare alto anche con le fiction storiche. Si prende la storia vera, la si filtra con una lente emotiva molto drammatica, e la si trasforma in una narrazione solenne dove nessuno sorride mai. Mameli è l’esempio perfetto: il povero Goffredo diventa una specie di Harry Styles risorgimentale, bello, intenso, patriottico, con un’aria sofferente costante e un’illuminazione teatrale anche quando sta bevendo un bicchiere d’acqua. Idem per Champagne, la serie su Peppino Di Capri di Cinzia TH Torrini, con il protagonista che sembra uscito dai Jonas Brothers. Così come Bel Canto, una serie assurda, che ha come presupposto un sequestro di persona che si trasforma in un esercizio di introspezione musicale. Poi c’è La lunga notte – La caduta del Duce, dove Mussolini è trattato come un personaggio di House of Cards, con scene in penombra e musiche da thriller psicologico. La Storia, che ci propone la guerra vista con gli occhi di una donna qualunque (ma con lo sguardo da attrice candidata ai David). I Leoni di Sicilia, invece, è un tentativo nobile di trasformare i Florio nei nuovi Medici, ma con più zibibbo e meno Savonarola.
E infine, ecco Miss Fallaci. La fiction evento di quest’anno, dove Miriam Leone indossa i tailleur come se fossero armature, fuma con il pathos di una statua greca e lancia frasi granitiche al vento, in interni illuminati come fossero sempre le cinque del pomeriggio. Oriana è la giornalista, la donna libera, l’icona, ma anche – nella rilettura Rai – una sorta di paladina neo-rinascimentale che lotta contro il maschilismo con lo sguardo tagliente e la voce ferma. Mancava solo che interrogasse Nixon sul valore dell’amore per completare il quadretto.
L’assurdo fascino delle serie Rai
Eppure le serie della Rai hanno un fascino irresistibile. Valerio Lundini lo aveva già capito, anni fa, quando regalò al mondo la meravigliosa parodia delle fiction Rai con Simonetta, la truccatrice di Anna Magnani. Una serie di trailer immaginari, con protagonista Emanuela Fanelli, talmente simili alle quelli veri da risultare indistinguibili: attori in controluce, primi piani eterni, dialoghi che sembrano scritti da un algoritmo sentimentale e musica epica anche quando si accende una lampada. Un capolavoro di satira, ma anche, diciamolo, un sincero omaggio all’assurdità del nostro modo “troppo italiano” – come direbbe Stanis La Rochelle, in Boris – di raccontare storie.
Comunque, nonostante tutto, le guardiamo. Tutte. Perché? Perché ci fanno sentire a casa. Perché sono rassicuranti, pur nei drammi. Perché sappiamo che, anche se cambia la trama, anche se i personaggi muoiono, anche se arriva un nuovo attore a fare il commissario, alla fine ci sarà sempre un casale nella campagna italiana, una madre che capisce tutto con uno sguardo, e una frase sussurrata prima dei titoli di coda che ci fa pensare: “La vita è proprio una fiction.”
E poi, diciamolo, vuoi mettere la soddisfazione di indovinare già dal primo minuto chi è l’assassino, solo perché ha un volto nuovo e non è mai apparso in Don Matteo?