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mercoledì, Gen 29

Figli è un bel film perché racconta il peso della scelta più grande


Il film, grazie alla scrittura di Mattia Torre, trova la chiave dell’immedesimazione collettiva di un’intera generazione messa a dura prova da un Paese che non l’aiuta

Esistono varie tipologie di genitori, come esistono varie tipologie di coppie e, ancora prima, altrettante di esseri umani. Mattia Torre in scrittura, Giuseppe Bonito in regia, scelgono di raccontarne una in particolare: la specie in via di estinzione di chi resta e resiste. Alle molteplici complicazioni del quotidiano come all’Italia di oggi, portata avanti da generazioni gelose dei propri privilegi. Anziani che continuano a perpetrare la loro vita da giovani, con relativo arroccamento a vita su posti di lavoro e poltrone, disinteressandosi completamente delle nuove generazioni, del loro destino, del loro futuro. Racconta tutto questo, e molto altro, Figli, un film che sta giustamente diventando un caso non solo per la prematura scomparsa del suo ideatore e narratore – una penna d’eccezione, Mattia Torre, drammaturgo dallo stile inconfondibile e capace come nessun altro di raccontare un Paese senza speranze ma con una preziosa dose di “umanità resistente”.


Il terzo posto conquistato dal suo Figli nel podio degli incassi dello scorso weekend dimostra quanto il passaparola del “devi andarlo a vedere, parla proprio di noi” stia funzionando. Perché Figli non racconta solo la quotidianità da equilibristi di due genitori (Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, mai così brava) costretti a barcamenarsi tra il pianto disperato di un neonato, la gelosia della primogenita e l’egoismo di familiari che li abbandonano a se stessi. Riesce a inquadrare perfettamente una generazione che prova a farcela con tutte le sue forze, malgrado i mille venti contrari. Difficoltà di arrivare a fine mese e insieme voglia di costruire, poche ore di sonno e necessità di lavorare, convinzione nel crescere una famiglia e impossibilità di essere, prima che aiutati, ascoltati. Una generazione che resiste e sceglie di restare in un Paese che, scrive bene Torre, è dominato dalle teste bianche, dai pensionati ancora lavoratori, da chi invecchia senza grazia nella totale amnesia dell’unico vero dono che le generazioni precedenti erano state in grado di fare: diventare maestri.

Una generazione che resiste, dicevamo. Alle chat delle mamme come ai sensi di colpa per la costante sensazione di sentirsi inadeguati in quel salto mortale che è la genitorialità. È un film in cui ci si immedesima perché racconta il peso delle scelte, in un’epoca in cui trionfano egoismi e irresponsabilità. Perché racconta che cosa significa essere mamme, mogli, lavoratrici e avere un compagno che fa quello che può, ma non è mai abbastanza. Racconta che cosa significa essere padri, quando il carico di aspettative supera quello delle possibilità. Ma racconta, soprattutto, l’Italia di oggi, incerta nella più banale presa di posizione (la scena di “Burrata e basta” vi resterà impressa), disgregata e fintamente aggregante (le feste urlanti, le interminabili chat di scuola), frustrata e mai messa in condizione di risollevarsi per davvero.

Siamo soli” affermano i due supereroi del quotidiano di questo film. Siamo soli, si ripetono gli spettatori che guardano e sentono di essere diventati adulti in un modo molto diverso rispetto a quello che si erano immaginati. Allora che cosa fare, quando i post-it non bastano più per contenere tutti i ‘si deve’ che questa società impone sugli improbabili ‘vorrei’? Ancora una volta, è Torre che ci dà la risposta, con la sua scrittura lucida e raffinata, carica di umanità: si può cambiare solo quello che si accetta. Accettare è il verbo-chiave per sopravvivere. Allo scombussolamento che comporta la nascita di un nuovo figlio come a un Paese ingrato a crescita zero.

 

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