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sabato, Ott 17

Fixers, o di quanto è cool ripararsi il PC da soli da Milano a Londra



Da Wired.it :

Manuali introvabili, parti di ricambio vendute a peso d’oro: cresce il movimento internazionale di chi si aggiusta i device da sé (e oggi, 17 ottobre, è l’International Repair Day). Basta qualche clic. Ma ci sono anche i party per socializzare (pandemia permettendo, ovviamente)

Bambini che riparano un pc al Restart Party di Aosta (fonte: Sarah Burgay, da Facebook)

“Meglio certo che buttare, riparare”, intonava Lucio Battisti negli anni ’70. L’amico geniale, quello che “con un cacciavite in mano fa miracoli”, era il protagonista di un fortunato pezzo. Il cantautore laziale, si sa, era un ecologista ante litteram; ma, da Londra a New York passando per Milano, una community di insospettabili si sta allargando a macchia d’olio: è quella dei fixer, chi ripara o –  al massimo – rivende i propri device invece di mandarli in discarica.

Siti web, laboratori e occasioni d’incontro per adepti e curiosi si moltiplicano: dove le restrizioni dovute al covid hanno reso impossibile incontrarsi di persona, l’appuntamento si è trasferito sul web. Riparare, assicurano gli organizzatori, significa risparmiare, è ecologico e aiuta i tecnici locali invece delle big tech, accusate di trascurare consumatori e ambiente con politiche che vanno dal design monoscocca all’obsolescenza programmata. Ecco perché il fai-da-te elettronico potrebbe diventare cool.

Restart Parties

“Francamente, quello che accade certe volte sorprende anche me”. In vent’anni passati tra stampanti e plotter, Fulvio Di Pietro ne ha viste tante. Dal laboratorio di Lissone, nel Milanese, della sua Printercheck sono passate generazioni di device: aghi, getto d’inchiostro, laser, in bianco a nero o a colori, modelli da pochi euro e impianti professionali da migliaia. Il mercato domestico, negli ultimi anni, si era assestato sull’usa e getta e sembrava impossibile tornare indietro. Invece qualcosa si è mosso.  “I clienti chiedono un preventivo, e quando per correttezza gli dico che la riparazione costa quasi quanto il prodotto nuovo, mi dicono: lo ripari lo stesso, non voglio buttarlo.

Fino a poco tempo fa la discarica sarebbe stata la prima opzione. “Quando ho cominciato, nel ’98, di green non si sentiva parlare. Ma una stampante costava almeno tre volte le cifre attuali, e portarla in un centro assistenza aveva certamente senso”. Assieme al nuovo millennio è cominciata un’epoca diversa: con il dispositivo venduto a prezzi stracciati, il business si è spostato su consumabili (ad esempio le cartucce) e ricambi: o ripari da noi, costi quel che costi, o lo butti.

Difficile stabilire chi abbia innescato il meccanismo; se siano stati, cioè,  gli uffici marketing ad addomesticare il pubblico per scelta strategica incentivando il consumismo tecnologico, o, invece, le aziende abbiano risposto a una fase di allargamento del mercato proponendo  linee di prodotti entry level che, a fronte di costi contenuti, non garantivano affidabilità. “Al di là delle differenze tra le varie case – rileva Di Pietro – anche all’interno della stessa azienda le macchine più costose mostrano una qualità costruttiva differente che le porta a soffrire meno di una serie di problematiche legate all’utilizzo”. Tradotto: si rompono meno.

Prendiamo gli smartphone: l’intero ciclo vita dei cellulari venduti in Europa è causa di 14 millioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno. La durata media della vita di un telefonino in Europa è di tre anni, e ogni 12 mesi sul territorio ne vengono venduti quasi 211 milioni”. A parlare è Ugo Vallauri, italiano residente a Londra da molti anni. Vallauri è attivista e fondatore di The Restart Project, tramite cui organizza eventi di riparazione collettiva, dove, tra bulloni e cacciaviti, l’aspetto della socializzazione è interessante tanto quanto quello ambientale. Magari non si troverà  l’amore della vita, ma è possibile fare quattro chiacchiere e sentirsi utili.

“Allungare la durata media dei cellulari anche solo di un anno consentirebbe di risparmiare più di due millioni di tonnellate di emissioni, equivalenti a togliere dalle strade europee circa un milione di auto”, prosegue Vallauri sciorinando dati. “Oltre il 70% dell’impatto ambientale di uno smartphone si ha prima che il telefono sia mai stato acceso, durante la fase di produzione. Allungarne la vita rendendolo più riparabile è il modo migliore per ridurre l’effetto”.  Il network messo in piedi dall’italiano ha ben presto superato da tempo la Manica: se le restrizioni legate al covid hanno spostato online l’attività nel Regno Unito, durante l’estate qualcosa si è mosso nel Belpaese, con eventi che hanno toccato Firenze, Aosta e Perugia. Ai tavoli, per spiegare il funzionamento dei device elettronici e provare ad aggiustarli, tecnici e appassionati. Ad Aosta hanno partecipato persino i bambini, accompagnati da genitori interessati al tema.
“Da qualche anno la gente è più sensibile, forse grazie all’attenzione che i media riservano a certe tematiche”, conferma Di Pietro. “Certo, ci sono ancora molti clienti per cui la cosa più importante è risparmiare. Ma sta aumentando la quota di quelli che si preoccupano – e sembra incredibile – della gestione dei rifiuti, e sono disposti a pagare qualcosa in più pur di non inquinare. Non parliamo di grandi cifre, però nella mia esperienza è un dato abbastanza significativo”.

Obsolescenza programmata

Il concetto di obsolescenza programmata – la data di scadenza di prodotti elettrici ed elettronici – fu coniato negli Stati Uniti negli anni ’20 del ’90o. Fazzoletti di carta, rasoi monouso e non solo: anche lampadine che si fulminano e lavatrici che si rompono, suggeriscono gli attivisti. Durante la Grande Depressione, l’obsolescenza programmata fu vista come una panacea. Maggiori consumi avrebbero significato un ampliamento della produzione, e quindi più lavoro. Il mondo di allora non aveva ancora fatto i conti con l’aumento della popolazione globale, l’innalzamento del tenore di vita e la scarsità di risorse. Per non parlare del cambiamento climatico, che, secondo gli esperti, minaccia di spazzare via intere regioni del globo, con il corollario di migrazioni e pressione sulle frontiere. Una lettura che mette i consumi al cuore del problema, e che prende di mira stili di vita e politiche aziendali.

Le community dei fixer

Le batterie dei primi iPod, protagonisti del rilancio di Apple, duravano circa 300 cicli di ricarica; nel 2003, la scoperta portò il regista Casey Neistat a riempire New York di graffiti di protesta e a girare un video che divenne virale, con milioni di visualizzazioni in pochi giorni. Risultato? Di lì a poco Apple, cedendo alle pressioni, cambiò la propria policy. Il potere delle web: era nata la prima, embrionale, community di fixer. Mancava ancora l’organizzazione, ma era questione di pochi mesi. La possibilità di scambiarsi opinioni, pareri e consigli di riparazione offerta dalla Rete fece sì che rapidamente cominciassero a formarsi i primi gruppi di non specialisti interessati all’argomento.

Chi trovava il modo di aprire un dispositivo e sistemarlo viveva un’emozione quasi carbonara, simile a quella dei cospiratori ottocenteschi. Nel 2003 nacque Ifixit, primo sito a raccogliere manuali e procedure per riparare da sé i propri device: schemi  elettrici e  istruzioni erano spesso gelosamente custoditi dalle case madri.

Gli elementi della storia ci sono tutti. C’è il nemico comune – le aziende di  big Tech –, c’è l’insoddisfazione, e ci sono gli eroi, giovani studenti squattrinati che sfidano Golia armati di fionda e svitabulloni.

Kyle Wiens e Luke Souls frequentavano l’università quando, nel dormitorio, provano a riparare un vecchio iBook. “Lo abbiamo smontato completmente alla cieca”, racconta a Wired  Wiens, raggiunto al telefono in California. “La  prima volta è stato un disastro, estremamente difficile, anche se, alla fine, ci siamo riusciti. Se non altro, dalla seconda in avanti ha  cominciato a essere più facile”. I due ventenni decidono di avviare un’attività in proprio comprando vecchi pc rotti su eBay per ottenere le parti di ricambio necessarie alla riparazione. Ma, soprattutto, cominciano a condividere sul web una serie di schede in cui descrivono in dettaglio le procedure seguite, consentendo a chiunque di contribuire. Oggi su Ifixit sono disponibili 30mila manuali di riparazione e 95mila soluzioni per oltre 7.400 prodotti, dai cellulari ai televisori. Il progetto, spiega Wiens, si autosostiene vendendo cacciaviti e kit di riparazione di base.

Wiens ha una propria teoria sull’obsolescenza programmata. “Esiste, ma non è  esattamente quello che la gente pensa”. Spieghiamolo meglio, gli chiediamo. “Faccio un esempio: se rimuovi il jack audio da un dispositivo, stai di fatto rendendo obsoleti centinaia di milioni di device esistenti, e forzi gli utenti a muoversi verso una tecnologia che francamente non è ancora pronta… non abbiamo ancora auricolari wireless di lunga durata e sostenibili. Se sei leader di mercato, sai che prima o poi tutti ti seguiranno: per questo hai maggiori responsabilità”. Fortunatamente ci sono marchi che hanno una politica differente: “Dell, Lenovo, HP rendono disponibili manuali e ricambi; ma anche un trapano Bosch è abbastanza facile da riparare, se ti si rompe il motore”.

Cina indietro, Germania al top

Con centinaia di milioni di pagine viste all’anno, Ifixit ha una panoramica globale sul mondo delle riparazioni. Chi guida la classifica? Continua Wiens: “Direi che la Germania è il paese culturalmente più propenso a rimboccarsi le maniche. In generale, però, vediamo interesse in tutto il mondo. Se dovessi indicare chi è rimasto un passo indietro: direi la Cina, la upper middle class prova scarsissimo interesse per le riparazioni. In India, Africa e Italia, invece, c’è di gran lunga più interesse”.

Il nostro paese, dunque, non sfigura. “In Italia facciamo cinque milioni di unique page views all’anno [in Germania sono 12, ndr] e c’è una community molto attiva che scrive le guide e le traduce: tutto su base volontaria”.

La pagina più cliccata sulla versione tricolore del sito riguarda un problema all’iPhone 6: non si sente più l’audio dall’altoparlante superiore. Niente centro assistenza: pare che per risolvere sia bastato passarci sopra uno spazzolino asciutto. I commenti entusiasti lasciano pochi dubbi sull’efficacia della procedura.

Repair Cafè, la risposta olandese

Ifixit, per quanto assai frequentata, è una community virtuale: la risposta olandese a Vallauri e ai suoi Restart Parties sono i Repair Cafè. Leggermente diverso il focus: qui non ci si limita alla tecnologia, i tecnici aiutano chi passa dai tavoli ad aggiustare di tutto, dall’asciugacapelli all’orologio, dal gioiello al pantalone troppo lungo. I Repair Cafè sono, attualmente, 67: dalla Francia alla Germania, dall’Australia al Regno Unito al Canada, al Belgio agli USA. Il 63% delle riparazioni in media ha successo, scrivono i responsabili nell’ultimo report, datato 2019. Un tasso che scende al 53% per i prodotti elettronici. Anche per loro, a mancare sono le parti di ricambio. Riparare va bene, ma meglio essere seguiti: secondo le statistiche raccolte, il 77% dei frequentatori non ha cercato autonomamente informazioni per aggiustare gli oggetti rotti, il 15% non le ha trovate, e solo il 7 % è riuscito a reperirle e usarle.

UE: dal 2021 stretta sui prodotti non riparabili

Con  la questione ambientale sempre più sotto i riflettori e la Cina che ha smesso di accettare molte tipologie di rifiuti dal 2017,  l’Unione Europea si è vista costretta a intraprendere iniziative a lungo rimandate. A  partire  dal 2021, una serie di prodotti (tv, monitors, frigoriferi, lavastoviglie, illuminazione) dovranno soddisfare requisiti minimi di riparabilità per essere venduti. “Ma non è abbastanza: nel testo manca, sostanzialmente, tutto il comparto elettronico”, dice Vallauri. Che rilancia con una proposta: “Perché non corredare i prodotti con un indice di riparabilità? Oggi come oggi il consumatore non sa nulla al riguardo, quando preleva un dispositivo dallo scaffale: tenendo conto di questa dimensione, la sua scelta sarà più consapevole”. Facile immaginare che l’idea non piacerà a molti.

Qualche paese ha provato a fare qualche passo in avanti in autonomia: il sito Repair.eu annuncia che in Austria la coalizione di governo ha acconsentito ad abbassare l’IVA sulle piccole riparazioni di bici, vestiti e scarpe portandola dal 20% al 10%, per renderle più appetibili. In alcuni lander del paese, inoltre, sarebbe stato un successo il bonus che rimborsava il 50% delle spese di riparazione fino a 100 euro.

Insospettabili del cacciavite

Oggi, 17 ottobre, cade l’International Repair Day, con eventi in tutto il mondo. E la Open Repair Alliance sta preparando un nuovo standard per la condivisione e la diffusione di informazioni e open data sulla riparazione. Ma chi va, davvero, va a questi eventi, a parte il pubblico degli smanettoni? Non sono solo giovani nerd e pensionati, afferma Wiens dalla California. “Il pubblico si sta allargando”. Anche alle donne. La portabandiera è Jessa James, che in America ha fondato un gruppo di mamme con il cacciavite e tiene corsi a tema, mentre ad Aosta il mese scorso sono stati coinvolti persino i bambini in un Restart Party molto particolare. Il titolo dell’evento? Tutto un programma: “Smontare è un gioco”.

“Non si tratta di un club esclusivo ma aperto a tutti”, affermano gli organizzatori. “Chi volesse mettere in piedi un Restart Party nella propria città è più che benvenuto. Basta contattarci sul nostro sito e gli forniremo tutte le informazioni per cominciare”. Il prossimo evento in programma sarà organizzato a Milano il 4 dicembre. Pandemia, ovviamente, permettendo.

 

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[Fonte Wired.it]