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lunedì, Feb 21

Futurama, il valore del talento e il problema della sottovalutazione



Da Wired.it :

Quello che segue è un aneddoto apocrifo: nel ventesimo secolo una donna avvicinò Pablo Picasso in un ristorante e gli chiese di farle un disegno. L’artista acconsentì per poi chiedere una somma considerevole per l’opera. Di fronte alle proteste della donna, che sosteneva che gli ci erano voluti solo pochi secondi per completare il disegno, Picasso ribatté: “No, per farlo ho impiegato quarant’anni”. Le fonti di questa storia non sono solidissime, a essere generosi. Appare, priva di fonti, in Cosa non ti insegnano alla Harvard Business School di Mark H. McCormack, e c’è chi dice che potrebbe essere stata ispirata da un aneddoto simile sul pittore James Abbott McNeill Whistler. Indipendentemente dalla sua autenticità, il punto della storia è comunque valido: il talento e le capacità hanno un valore.

In linea prettamente teorica, dovrebbe essere una cosa ovvia. Eppure le persone si comportano come se non fosse così. Nel corso degli anni, in modi grandi e piccoli, in molti hanno sviluppato l’aspettativa che molta arte, gran parte di ciò che ora chiamiamo “contenuto”, debba essere gratuita, o almeno ampiamente accessibile: musica, spettacoli, battute su internet, opere scritte. Sotto certi aspetti, è comprensibile. Per anni le grandi società che controllano molte di queste opere hanno fatto salire i prezzi, scottando i fan grazie a quali avevano acquisito valore. Allo stesso tempo, molti autori non vengono adeguatamente retribuiti. Se il polverone generato dal caso Joe Rogan-Neil Young-Spotify ha avuto una ripercussione, al di là dell’ovvio, è stata quella di far luce su quanto poco i servizi di streaming musicale paghino i musicisti. Al di là dei singoli casi, il quadro è chiaro: non tutti ottengono ciò che meriterebbero per l’intrattenimento di cui godiamo.

Tutto questo è tornato in primo piano di recente grazie al cosiddetto “BenderGate”. Per chi si fosse perso le puntate precedenti: la scorsa settimana il servizio di streaming statunitense Hulu ha annunciato il ritorno della serie animata di culto Futurama, con venti nuovi episodi che verranno trasmessi nel 2023.  Ma c’è un piccolo problema: il nome di John DiMaggio, il doppiatore che dava la voce al robot Bender, uno dei protagonisti della serie, non compariva nel cast del revival. Secondo le indiscrezioni, le trattative per un suo ritorno erano arrivate a un “punto morto”. La settimana scorsa, DiMaggio ha deciso di chiarire la questione su Twitter: “Non penso che solo io meriti di essere pagato di piùha scritto. Penso che tutto il cast lo meriti. Le trattative sono una parte naturale del lavoro nello show business. Ognuno ha una strategia diversa e diversi limiti. Il proprio ‘prezzo’. […] Bender fa parte della mia anima e niente di tutto questo vuole essere irrispettoso nei confronti dei fan o della mia famiglia di Futurama. È una questione di rispetto per se stessi. E francamente sono stufo di un settore che è diventato troppo corporativo e che sfrutta il tempo e il talento degli artisti“.

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La dichiarazione di DiMaggio trasmette un’impressione di autenticità, ma è stato il passaggio sui fan a colpirmi. La maggior parte dei fan su Twitter ha sostenuto la decisione del doppiatore di rinunciare al reboot, ma le sue parole alludono al fatto che forse alcuni di loro lo stiano assillando perché torni a far parte della serie a cui sono tanto affezionati. Se per affrontare il tema delle pretese dei fan ci vorrebbe un saggio intero, c’è un’altra questione, appena sotto, che merita di essere discussa: la sottovalutazione da parte dei fan. In generale, le comunità di appassionati apprezzano il lavoro profuso per realizzare le cose che amano – com’è ovvio – ma tra loro può circolare l’idea, soprattutto con le grandi proprietà cinematografiche e televisive, che tutte le persone coinvolte siano ben retribuite, se non iper-retribuite. Che gli attori (o i registi o chiunque altro) facciano una cosa meschina quando chiedono più soldi. Vengono messi sullo stesso piano delle ricche case di produzione per cui lavorano. Si tratta di una falsa equivalenza. Il lavoro di questi professionisti porta gioia a milioni di persone e fa guadagnare un sacco di soldi a quelle società: è giusto che siano pagati in modo adeguato.

Questo è uno dei pochi casi in cui, per quanto suoni strano, la gioia potrebbe essere parte del problema. Le arti sono viste come un divertimento, uno di quei lavori in cui – parafrasando un poster motivazionale – se ami quello che fai, non lavorerai mai un giorno nella tua vita. C’è l’idea che queste categorie di lavoratori dovrebbero sentirsi gratificate dal significato che le persone attribuiscono al loro lavoro. Il che va bene, ma chi lavora nel settore dell’intrattenimento deve anche pagare le bollette. Il fatto che esistano persone a cui piace ciò che fanno non significa che non debbano essere pagate adeguatamente per il loro lavoro. Amo scrivere di cultura pop, ma è anche il mio lavoro. Mi ci sono volute circa due ore per scrivere questo pezzo, ma le basi per realizzarlo arrivano da decenni di ricerche e articoli.

L’informazione vuole essere gratuita, ma il fatto che sia possibile leggere i titoli degli articoli su Facebook non vuol dire che il New York Times non abbia dovuto pagare qualcuno sul campo che può aver messo a repentaglio la propria sicurezza per reperire quelle informazioni. Ascoltate in streaming tutta la musica che volete, ma comprate anche un album di tanto in tanto, o andate a un concerto. Ci vogliono anni per imparare a suonare uno strumento, per animare uno spettacolo, o per recitare bene come fa Zendaya. Il vostro divertimento è il lavoro di qualcun altro. DiMaggio potrà anche impiegare solo qualche ore o giornata per registrare un episodio di Futurama, ma per trovare la voce di Bender gli ci è voluta tutta la vita.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired Us.





[Fonte Wired.it]