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venerdì, Apr 17

Genitori a tempo pieno – Finalmente si alzano le voci in difesa dei nostri figli



Da Wired.it :

Una rubrica pensata per raccontare l’esperienza di una “madre full time” ai tempi del coronavirus. Oggi parliamo della capacità di adattamento dei bambini e come non debba essere un alibi alle nostre scelte di adulti

Sarà la fine delle vacanze di Pasqua, saranno i primi caldi, ma in questa settimana è (finalmente) esplosa la richiesta di attenzione e risposte rispetto alla sorte dei 10 milioni di bambini e ragazzi chiusi in casa da almeno un mese, quando non due.
L’elenco delle persone che hanno chiesto di aprire gli occhi e soprattutto iniziare a ragionare non sul se trovare il modo di far uscire i bambini e di farli tornare a scuola, ma sul quando e sul come farlo, si sono moltiplicati in pochi giorni.
Dalla ministra della Famiglia Bonetti alla giornalista Concita De Gregorio, dalla Garante per l’infanzia e l’adolescenza al pedagogista Daniele Novara, tutti gli interventi sembrano seguire uno stesso filo rosso: per i bambini e i ragazzi non è sostenibile né una clausura infinita che vada oltre quella imposta alle altre fasce di popolazione, né un ulteriore ritardo di avvio delle scuole rispetto al già lontanissimo mese di settembre.

Leggendo vari interventi autorevoli, ripensavo ad un’intervista toccante, che mi è capitato di vedere in questi giorni.
È la testimonianza delle sorelle Bucci: due ebree fiumane prelevate da bambine insieme a una parte della famiglia e trasportate sui treni nazisti, prima alla Risiera di San Sabba e poi ad Auschwitz-Birkenau.
Nonostante avessero 5 e 7 anni, una volta arrivate al campo di sterminio, le due sorelle vennero salvate dalla morte immediata, forse su indicazione dello stesso Josef Menghele.
Nella testimonianza raccolta dalla comunità degli italiani di Fiume, le anziane signore raccontano di come fu imprevedibilmente semplice, per loro, adattarsi ai dormitori di Auschwitz.
Parliamo di baracche senza riscaldamento in Polonia, con “coperte inesistenti”, circondate da neve e morte.
Ma le bambine, una volta entrate, pensarono: “Se gli adulti ci hanno portato qui, significa che i bambini ebrei devono vivere in posti così”. E smisero di farsi delle domande.

È una testimonianza sconvolgente, perché racconta cosa si possa nascondere, a volte, nel famoso ed osannato “adattamento” dei bambini.
Certo, il paragone non vuole in alcun modo essere storico, ed è bene sottolinearlo con forza.
Quello che hanno subìto le sorelle Bucci, e tutti i bambini che arrivarono nei campi di sterminio per essere immediatamente gasati sotto le docce oppure tenuti in vita per diventare cavie di esperimenti pesudo-scientifici, non può essere confrontato con nessun evento contemporaneo. Ma è importante ascoltare le parole di Andra Bucci per capire quali fenomeni possano avvenire all’interno della mente di un bambino obbligato a vivere un contesto a lui sfavorevole, anche senza arrivare all’estremo dei campi di sterminio.

Ad oggi non possiamo sapere cosa stia passando nella testa dei nostri figli, che da settimane hanno perso qualsiasi contatto con la loro vita precedente e che, soprattutto,  si sono visti annullare da un giorno all’altro molti di quelli che sono ritenuti (da una Convenzione ratificata da tutti gli Stati del mondo tranne Sud Sudan, Palestina, Somalia e Stati Uniti d’America) i loro diritti inalienabili – come la relazione con i coetanei e con la famiglia al di là dei soli genitori; il gioco all’aria aperta; la scuola; la sicurezza, e per alcuni anche il cibo sano e regolare.
È possibile che per molti di loro il pensiero sia pericolosamente simile a quello di Andra Bucci: “Se gli adulti ci fanno fare questo, allora significa che questo è quello che i bambini come me devono fare”?
È possibile ipotizzare che questo pensiero sarà sempre più difficile da cancellare dalle menti più passera il tempo senza che ci possa essere un ritorno alla normalità?
È possibile che la loro capacità di riadattarsi alla vita “normale” risulterà addirittura più traumatica dell’inizio della reclusione?

Mi sembra che, finalmente, queste domande che agitavano il sonno di molti tra noi genitori fin dai primi giorni di quarantena (che, ricordiamoci, non ha praticamente uguali in Europa, per restrizioni sulle spalle dei bambini, come raccontavamo già qui) inizino ad essere una preoccupazione anche per il mondo dei media e, soprattutto, della politica.
Dopo aver parlato di scuola soltanto in termini di voti e risultati, finalmente si inizia a comprendere che il problema maggiore è la distanza tra l’offerta possibile attraverso il digitale e i bisogni degli studenti, in particolare quelli delle fasce più piccole: nidi, infanzia e primaria.

Dopo aver rimandato il pensiero, si inizia a capire che un’Italia senza offerte estive significa un paese bloccato per la metà dei suoi lavoratori, costretti a restare a casa con i bambini (e non ci vuole molto a capire, tra mamme e papà, chi rinuncerà alla sua professione tra giugno e settembre).
Dopo aver ragionato di bambini soltanto (e in maniera angosciante) come veicoli del virus, si inizia a ragionare sul fatto che non esiste nessuna possibilità di emarginare i minorenni dalla vita sociale fino alla scoperta di una cura o di un vaccino.

Bisogna trovare degli equilibri.
Bisogna assumersi delle responsabilità politiche, e fare delle scelte.
Bisogna fare degli investimenti che permettano un (parziale, se non completo) ritorno alla normalità.
Bisogna scegliere vie locali e regionali – quando non addirittura regolamentate dall’autonomia scolastica – che permettano di costruire contesti tanto più rispettosi dei diritti dei bambini quanto la situazione specifica lo permetta.

Ma è assolutamente importante che, prima di tutto questo, avvenga un cambio di passo rispetto alla narrazione mediatica legata al controllo e alla persecuzione.

Immagini allucinanti come quelle trasmesse da Barbara D’urso, della fuga del runner sulla spiaggia come se si trattasse di un pericoloso narcotrafficante internazionale, inquinano i pozzi della discussione civile e sensata.
Aver alzato in maniera totalmente ingiustificata i toni della paura rispetto alle persone in uscita solitaria – forse anche per coprire le responsabilità politiche delle morti nei centri anziani e sicuramente legate alla specificità italiana del taglio drastico dei posti letto in terapia intensiva nel corso degli ultimi decenni –  non farà che rendere scettiche le persone sulla possibilità di trovare delle soluzioni che tengano conto sia dell’emergenza sanitaria che dei bisogni di bambini e ragazzi.

Le task force che studieranno le soluzioni possibili da maggio in poi devono poter lavorare senza subire le urla di chi ritiene che l’unica soluzione possibile sia quella di tenere chiusi in casa i bambini e i ragazzi fino alla scoperta di un vaccino o di una cura.
Questa non è e non può essere una soluzione.
Iniziamo fin da subito a cancellarla dalla lista delle ipotesi.

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[Fonte Wired.it]