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giovedì, Mag 28

George Floyd non sarà l’ultima vittima del razzismo delle nostre società



Da Wired.it :

La polizia ha ucciso l’ennesimo cittadino afroamericano, a Minneapolis, ma diciamocelo: ce ne saranno altri. E il motivo è che le nostre democrazie hanno un passato razzista e coloniale di cui non si sono mai liberate

È passata solo qualche settimana dal caso dell’omicidio di Ahmaud Arbery, un 25enne ucciso a colpi di fucile mentre faceva jogging da un ex agente di polizia e da suo figlio. Un agguato che i due hanno giustificato col fatto che credevano che quel ragazzo nero “fosse un ladro”. E ora dobbiamo parlare di George, George Floyd. Anch’egli di colore, ucciso in modo altrettanto immotivato e ingiustificabile: un ginocchio che preme sul collo di un uomo schiacciato a terra fino a fargli perdere i sensi, che continua a premere anche quando chi osserva la scena intima all’agente di smetterla, che lo sta uccidendo; un ginocchio che non smette di infierire su quel collo neppure quando a George Floyd esce sangue dal naso, e nemmeno quando l’uomo a terra, prima di perdere i sensi, dice all’agente, chiaramente, “ti prego, non uccidermi”.

Di questa storia, come di quella di Arbery, conosciamo bene alcuni tratti: gli Stati Uniti e la violenza questurina delle loro istituzioni militari, il diffuso pregiudizio verso gli afroamericani, il razzismo che viene direttamente dall’epoca coloniale, e da una disputa storica mai completamente risolta: quella sullo schiavismo. I suprematisti bianchi non hanno mai smesso di esserci, anche dopo aver perso la guerra. In quel ginocchio che a Minneapolis ha schiacciato, strangolandolo per oltre sette minuti, George Floyd, c’è un dramma culturale che ci riguarda perché anche da noi il razzismo esiste ed è diffuso, anche tra gli appartenenti alle forze dell’ordine. E anche da noi il razzismo ha una storia precisa: è ancora oggi la bandiera di una parte politica, il fascismo, che un tempo governava l’ per poi dissolversi sul territorio. 

Un altro innocente afroamericano è stato ucciso dalle forze dell’ordine statunitensi, e per l’ennesima volta la polizia ha coperto il fatto sminuendo l’accaduto, parlando di “incidente medico”. L’impunità di queste violenze è anch’essa parte di una storia che conosciamo bene, quella del cameratismo, cioè la tendenza degli appartenenti a una categoria a essere omertosi, a proteggersi tra loro anche mentendo.

Oggi, giustamente, a Minneapolis si protesta: e lo si fa per George Floyd. Ma passata la rabbia bisogna sbollire e affrontare la questione politica più spinosa: Floyd non sarà l’ultimo a morire in modo ingiusto per via del razzismo e della violenza delle forze dell’ordine. Ci sarà qualcuno, probabilmente uomo e ancora più probabilmente nero, che verrà ucciso. E ce ne sono centinaia che non muoiono e per questo non fanno notizia, ma vengono comunque picchiati, arrestati, vessati e minacciati ogni giorno. Si tratta di un problema sociale e storico, un dramma comune che si può stroncare soltanto con una presa di posizione collettiva: detto in altre parole, serve che molti si muovano, che non siano solo i neri a protestare, che non si protesti solo a Minneapolis, che non accada solo tra gli statunitensi. E per un semplice motivo: è una questione che riguarda tutto l’Occidente che un tempo fu colonialista e padre-padrone del mondo intero, e che ancora oggi in alcune sue parti si comporta in questo modo. 

Che sia chiaro: è giusto e utile investigare la morte di George, capirne le dinamiche nei minimi dettagli, stare a vedere se i quattro agenti di polizia (Derek Chauvin, Tou Thao, Thomas Lane e J. Alexander Kueng) finiranno sotto processo e vedere come andrà a finire. C’è da sperare che il tutto non svanisca nel nulla, per la memoria di Floyd, dei suoi famigliari e dei suoi cari. Ma poi c’è un passo ulteriore, una visione del problema che deve tener conto del contesto culturale, di quello sociale, del razzismo in tutte le sue forme, del come pensiamo di combatterlo, riconoscerlo e smascherarlo, questo razzismo. Perché anche in Italia facciamo in questo senso facciamo grossi errori: crediamo che il razzismo nasca dall’ignoranza, che venga dal non leggere i libri, che venga dall’essere bianchi o da chissà quale intrinseca stupidità: invece non è così. Pensarla così è come dire che tutti, naturalmente, siamo razzisti e la cultura ci emancipa da questa nostra tendenza naturale. Falso: i bambini più piccoli, ancora incapaci di leggere e scrivere, non fanno nessuna distinzione di razza, non trattano peggio i loro coetanei neri. Lo faranno da adulti, quando avranno letto e imparato a scrivere. Il razzismo non sta nella nostra natura, ma nella nostra cultura.

Il razzismo ha una storia: ha dietro di sé secoli interi di vicende, guerre, territori conquistati, bandiere, inni, canzoni, tradizioni, ideologie, mausolei, regimi, plotoni, luoghi simbolici e anche veri e propri trionfi, come quelli novecenteschi, come il regime di apartheid sudafricano, come lo stato razzista della Rhodesia in Africa. E la lista è potenzialmente lunghissima.

Per una volta, oltre che approfittare di violenze come quelle che hanno ucciso George Floyd per chiedere i codici identificativi per gli agenti, e la fine delle violenze da parte della polizia (entrambe cose sacrosante, ma che facciamo ogni volta invano, ammettiamolo) proviamo ad allargare l’inquadratura. Proviamo a vedere le violenze, il cameratismo e il razzismo per quello che sono: tradizioni storiche secolari di cui dobbiamo liberarci con un progetto politico serio e funzionale. Gli slogan e la rabbia hanno dimostrato di non servire: dire speriamo che quell’agente finisca sulla sedia elettrica non serve a niente, e purtroppo non serve nemmeno sperare che venga processato. C’è, per le forze dell’ordine, un sistema di protezione giuridica per gli atti commessi in guerra e nell’esercizio delle loro funzioni, la loro impunità viene da un sistema. O cambiamo il sistema, o di George Floyd ne moriranno molti altri. 

 

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[Fonte Wired.it]