Gerusalemme è tornata al centro delle cronache internazionali lunedì 26 maggio, quando gruppi di giovani fondamentalisti ebrei israeliani hanno marciato attraverso i quartieri musulmani della Città Vecchia cantando slogan come “morte agli arabi” e “possa bruciare il vostro villaggio“, provocando tensioni e alcuni confronti verbali con i residenti palestinesi. Gli episodi sono avvenuti durante le celebrazioni del Jerusalem day, giorno di commemorazione per Israele della conquista di Gerusalemme est nel 1967.
Per evitare scontri più gravi, i commercianti palestinesi avevano chiuso i loro negozi su consiglio della polizia israeliana, che aveva schierato 2.500 agenti nei vicoli della Città Vecchia riuscendo in gran parte a mantenere separati i gruppi. Tuttavia, la giornata ha visto momenti di forte tensione, quando il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, si è recato sulla Spianata delle Moschee, il punto più sensibile della città perché sacro sia per gli ebrei sia per i mussulmani. Dal 1967 vige un delicato “status quo” in questo luogo che permette agli ebrei di visitarlo ma non di pregarvici, per evitare tensioni. L’evento riportato alla ribalta la questione irrisolta dello status di Gerusalemme est, territorio che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro Stato e che la comunità internazionale continua a considerare illegalmente occupato da Israele.
Una divisione che viene da lontano
La configurazione urbana di Gerusalemme è il risultato di una stratificazione storica che affonda le radici nella spartizione del 1948. Dopo la Guerra di indipendenza israeliana, la città rimase divisa per diciannove anni lungo la cosiddetta Linea verde, con Israele che controllava la parte occidentale e la Giordania che amministrava la parte orientale, inclusa la Città vecchia con i suoi luoghi santi. Durante questo periodo, agli ebrei fu sistematicamente negato l’accesso al Muro del Pianto e agli altri siti religiosi.
La Guerra dei sei giorni del giugno 1967 modificò radicalmente la geografia politica e amministrativa di Gerusalemme, quando le forze israeliane conquistarono la parte orientale insieme alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza e alle Alture del Golan. Israele procedette immediatamente all’espansione dei confini municipali, triplicando la superficie urbana e incorporando villaggi della Cisgiordania che divennero quartieri della capitale. Questa ridefinizione unilaterale dei confini creò quello che oggi viene comunemente chiamato Gerusalemme est, un’area che comprende non solo i quartieri storicamente orientali ma anche significative porzioni di territorio palestinese precedentemente rurale.
La battaglia legale internazionale
Lo status legale di Gerusalemme est costituisce uno dei nodi più intricati del diritto internazionale contemporaneo, caratterizzato da una sovrapposizione di rivendicazioni e interpretazioni giuridiche che non trovano sintesi dopo oltre mezzo secolo. La Legge di Gerusalemme del 1980, con cui Israele estese formalmente la propria rivendicazione di capitale a tutta la città, includendo Gerusalemme est conquistata nel 1967, non ha mai ottenuto riconoscimento internazionale ed è stata condannata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come “nulla e priva di validità“. Inoltre, la Corte internazionale di giustizia ha ribadito nel luglio 2024 che l’occupazione israeliana della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, è illegale e dovrebbe cessare “il più rapidamente possibile“, definendo la presenza israeliana come un “abuso prolungato della posizione di potenza occupante”. Pertanto la gran parte dei paesi continua a mantenere le ambasciate a Tel Aviv, rifiutando di riconoscere Gerusalemme come capitale israeliana. Solo pochi Stati, tra cui gli Stati Uniti, hanno spostato le loro sedi diplomatiche nella città santa.
La rivendicazione palestinese si fonda sulla pretesa di stabilire Gerusalemme est come capitale di un futuro Stato palestinese, una posizione sostenuta da 57 paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica e da numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che riconoscono i territori occupati nel 1967 come base territoriale per l’autodeterminazione palestinese. Del resto, la leadership palestinese ha tentato di materializzare questa pretesa costruendo uffici governativi e una sede parlamentare ad Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme, in quello che era stato concepito come un compromesso durante i negoziati di Camp David del 2000, ma che non si è mai concretizzato in un effettivo trasferimento di sovranità a causa del fallimento di quelle trattative.
Gerusalemme Est ospita oggi circa 360 mila palestinesi e 230 mila israeliani, spesso residenti in quartieri vicini o intrecciati. Ma la città resta divisa: le due comunità vivono separate di fatto, con scuole, ospedali e spazi pubblici distinti, e pochi contatti nella vita quotidiana. La presenza capillare delle forze di sicurezza e un certo grado di interdipendenza economica contribuiscono a contenere le tensioni, senza eliminarle del tutto. I palestinesi di Gerusalemme est vivono in una condizione giuridica incerta: hanno un permesso di residenza permanente, ma non la cittadinanza israeliana. Possono muoversi liberamente e accedere ai servizi pubblici, ma non votare alle elezioni nazionali. Questa ambivalenza si riflette anche nelle opinioni: molti si oppongono all’occupazione, ma ne dipendono economicamente. Secondo alcuni sondaggi, una parte significativa preferirebbe restare sotto giurisdizione israeliana, attratta da un tenore di vita più alto e infrastrutture più efficienti. Il reddito medio a Gerusalemme ovest, infatti, è circa quattro volte superiore rispetto alle aree controllate dall’Autorità palestinese.