Seleziona una pagina
giovedì, Feb 04

Gli scienziati chiedono una completa e aperta condivisione dei dati sul genoma di Sars-Cov-2



Da Wired.it :

Tra diversi database disponibili, molti ricercatori, soprattutto coloro che lavorano in paesi dal basso-medio reddito, scelgono quello che “protegge” di più i loro dati. Ma c’è chi sostiene che questo rallenti la ricerca sulle nuove varianti del coronavirus

(Immagine: Getty Images)

Le nuove varianti di Sars-Cov-2 preoccupano: bisogna studiarle e in fretta. Ma secondo oltre 500 scienziati da tutto il mondo (tra cui l’ultimo premio Nobel per la chimica Emmanuelle Charpentier) la ricerca sta venendo rallentata da una non completa e aperta condivisione delle sequenze genetiche, protette dalle policy di alcuni popolari database che ne impediscono la ricondivisione senza autorizzazione. E in una lettera aperta lanciano un appello ai colleghi perché utilizzino banche dati open access. Non tutti i ricercatori, però, appoggiano la richiesta.

C’è database e database

Fin dall’inizio della pandemia l’Oms e molte società scientifiche hanno sottolineato l’importanza cruciale di mettere in comune le informazioni che i ricercatori sparsi in tutto il mondo stavano man mano acquisendo sul coronavirus. E così, in un certo senso, è stato fatto. I database si sono riempiti di sequenze genomiche di Sars-Cov-2 rendendo possibile capirne di più sul nuovo patogeno e sviluppare possibili strategie per colpirlo, per esempio i vaccini.

Non tutte le banche dati però sono completamente libere e permettono la ricondivisione istantanea dei dati che raccolgono.

Così è per Gisaid, il database attualmente più popolare, che ospita più di 450mila sequenze virali di Sars-Cov-2. Gisaid permette agli utenti di accedere ai dati caricati dai laboratori ma non completamente. Per poterli ottenere bisogna identificarsi e richiedere l’autorizzazione a chi li ha prodotti comunicando il proprio intento.

Questo sistema ha dei pro e dei contro: da una parte tutela il lavoro dei ricercatori che caricano su Gisaid perché continuano a detenere dei diritti sui propri dati, dall’altro – ed è quello su cui insistono i firmatari della lettera– è limitante e rallenta il lavoro dei colleghi per prevedere l’evoluzione del virus. Inoltre non dà la possibilità di condividere i dati grezzi, cioè non lavorati dagli autori. L’elaborazione, infatti, costituisce per forza di cose un’interpretazione che come tale può essere soggetta a errori.

Da questo punto di vista, invece, le tre banche dati della International Nucleotide Sequence Database Collaboration (Insdc), cioè la Us GenBank, European Nucleotide Archive (Ena) e la Dna Data Bank of Japan, non pongono alcuna restrizione alla condivisione. Perché non usarle?

Proprietà ed equità

Nel dibattito che è conseguito alla lettera dei 544 scienziati, altri esperti hanno sottolineato che, per quanto la richiesta dei colleghi fosse condivisibile in termini assoluti, la realtà dei fatti è che per molti ricercatori affidare il proprio sudato lavoro a banche dati aperte significa in sostanza rinunciare a qualsiasi riconoscimento, soprattutto se si lavora in paesi con basso-medio reddito. E infatti Gisaid (che sta per Global Initiative on Sharing Avian Influenza Data) era nato nel 2008 proprio come consorzio internazionale senza scopo di lucro per incentivare i ricercatori a condividere dati sui ceppi virali di influenza aviaria in tempo reale, senza aspettare di aver completato l’analisi e averli pubblicati e allo stesso tempo senza paura che grossi gruppi o case farmaceutiche li utilizzassero senza consenso e senza attribuzione per creare magari nuovi farmaci.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]