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martedì, Ott 29

Ha ancora senso parlare di “regioni rosse”?


Che ne è stato di questa definizione, ormai simile a un luogo comune? Il declino non è arrivato all’improvviso: è il compimento di un disegno durato 40 anni

(foto: Fototeca Gilardi/Getty Images)

Addio definitivo a un luogo comune. Con tutti i doverosi onori delle armi, ma anche con la nuova convinzione che la prima lezione che occorre trarre dai risultati delle Regionali in Umbria sia proprio questa. Va messa in soffitta, una volta per tutte, la retorica delle roccaforti rosse che si era aperta quasi mezzo secolo fa, con le elezioni del giugno 1975. Ora si passa alla stagione del realismo, degli egoismi, del voto di pancia, di una giunta che a Perugia prende l’aspetto dell’opposizione al governo Conte: sovranista o nazional-populista, come si dice in questi giorni, tra politologi; di destra liberista, come sarebbe più esatto definirla politicamente.

Con malinconia o sarcasmo, a seconda dei punti di vista, possiamo andare a rileggerci ciò che scrivevano i giornali nell’estate del 1985. “L’ Italia volta pagina… Le sinistre stravincono… A sinistra avanti tutta… Sta emergendo una nuova società, convinta che si possa vivere senza la Dc, o almeno senza la sua egemonia e i suoi vassalli”. Esagerazioni giornalistiche? Non proprio: i comunisti in quelle elezioni per la prima volta dalla fine della guerra riescono a superare la barriera del 30 per cento e a portarsi a due sole incollature dalla Dc. Il “terremoto” si estende anche nelle elezioni comunali di quell’anno e del successivo, in un processo che porta il Pci a conquistare le prime cinque città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova) e 29 province dello Stivale.

Una marea di giunte rosse che segnalano una rottura senza precedenti della tradizionale vischiosità dell’elettorato italiano, e un desiderio di novità. Per citare un editoriale del Corriere della Sera dell’epoca:

Un desiderio di mutamento, un ‘bisogno di cambiare’ che è stato una lezione per tutti… un invito a tutti a cambiare, ad adottare metodi, sensibilità, sistemi diversi da quelli usati fin ora… Non c’è un elettorato stretto in difesa per paura di qualcosa, ma un elettorato di diverse provenienze… che non ha paura. È un voto riformista”.

Da allora, con regioni rosse si inizierà a intendere la Toscana, l’Emilia-Romagna e per l’appunto l’Umbria: tre regioni che saranno ben governate dalle sinistre, dove il rapporto fra comunisti e socialisti, non privo di conflitti e difficoltà, produrrà collaborazioni efficaci e ricche di innovazione, capaci di mettere in rilievo il potere dei partiti – almeno di alcuni di essi – e di mantenere quel ruolo attivo nel determinare la politica che la Costituzione assegna loro.

Il valore di quel rosso è stato a lungo duplice, e diretto anche al vertice di Botteghe Oscure, che non ha mai saputo – sin da quando reggeva le insigne del Pci – valorizzare appieno le sue esperienze di buon governo locale, e bollandoli come esempi di deteriore localismo.

La fine del mito, infatti, viene da lontano. Il declino dei comunisti in tutte le regioni, anche nelle loro tradizionali roccaforti della Toscana, Emilia Romagna, Umbria, era già cominciato già con le amministrative del 1980. Il problema delle giunte di sinistra nelle grandi città era stato risolto prima del voto, con la decisione dei socialisti di contrattare la rottura con i comunisti in cambio della permanenza di Bettino Craxi a Palazzo Chigi. E nel 1985 il Pci arretrava ovunque, con una Dc capace di rigenerarsi e un Psi che erodeva sempre più consensi.

Il risultato fu, nel 1990, un anticipazione dell’impensabile governo Conte-bis: un’alleanza strategica, squisitamente locale, tra democristiani e comunisti in alcuni comuni umbri, con la benedizione dei vescovi locali e non pochi opinionisti che storsero il naso. Tra litigi e nasi tappati si arriva così agli anni Novanta e Duemila, con un centrosinistra sempre più istituzionale e moderato, integrato e anzi parte del mainstream che ottiene percentuali bulgare nel Centro anche quando a Roma le cose vanno male.

Ma dalla crisi economica del 2008 – e, ancor di più, con la crisi dei rifugiati del 2013-14 – tutto è precipitato. Alle regionali del 2015 un centrodestra a traino Lega esprimeva un candidato molto competitivo in Umbria, perdendo meno del previsto e segnalando che anche le Regioni rosse possono diventare contendibili. Il secondo e il terzo partito italiano erano già allora forze anti-euro e anti-sistema, stabilmente insediate nell’elettorato e nel meccanismo istituzionale che contestavano.

Insomma, lo smantellamento delle giunte di sinistra non arriva all’improvviso, non rappresenta un colpo del “destino cinico e baro” come avrebbe detto il Giuseppe Saragat degli anni Cinquanta. È soltanto la ratifica sul piano dei numeri di un disegno di demolizione che si è sviluppato, giorno per giorno, nel corso dell’ultimo quarantennio, forse dal momento stesso in cui quel mito è nato.

Un’ultima considerazione. Le regioni rosse saranno state governate più o meno bene: sarebbe difficile sostenere, però, che sul piano della moralità pubblica hanno mantenuto una linea di correttezza superiore alla media. Anche in Umbria, come in Emilia-Romagna, ci sono stati scandali, tutti tempestivamente denunciati. Il punto è che gli elettori si sono dimostrati del tutto insensibili a questo tema. I partiti più coinvolti – il Pd con Sanitopoli e la Lega col suo Russiagate, che però era di caratura nazionale  – non ne hanno ricevuto granché danno. Nel caso del Carroccio, anzi, sono stati addirittura premiati.

Non siamo ancora in grado di ragionare in base alla mappa dei risultati definitivi delle elezioni in Umbria e delle risposte che arriveranno da Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio. Il vero danno per gli eredi del Pci però rischia d’essere che il Pd si privi di una regione magari modesta dal punto di vista del peso demografico, ma per anni associata a un sistema che funziona, se non direttamente a un capitalismo sostenibile; la sinistra non la potrà più mettere sul piatto della sua credibilità e della sua competenza, e sarà costretta a sperare che Toscana ed Emilia non cadano subito. Oppure non resterà che Milano, come roccaforte simbolica ed economica delle sinistre liberali.

Forse bisogna andare ancora oltre, e chiedersi se questa vittoria dei temi del buonsenso (intenso come da propaganda salviniana, come una certa avversione per l’immigrazione, lo stato, le tasse), condita da una sostanziale indifferenza per i temi della trasparenza, non rivelino in controluce un processo di omologazione tra regioni cosiddette rosse e resto . Tra una certa società politica e una certa altra società civile. Il voto di reazione – come lo definiscono i sociologi – vale ormai più del voto di fedeltà e di quello di opinione? Un’epoca si chiude, dicono, ma forse si era già chiusa da tempo. Quello che si apre, invece, è ancora tutto da capire.

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