Uno dei miei primi ricordi è un libro alto la metà di una bambina di sei anni. Sulla copertina un cielo oscuro striato di punti luminosi, a comporre quella che oggi riconosco come una nebula. E, in sovrimpressione, la maschera metallica di un sole sorridente – un cerchio di oro dal quale si irradiavano lunghi triangoli affusolati. Non ricordo il titolo ma, per me, era un serbatoio di immaginazione cui attingere quotidianamente: nient’altro che un dizionario di mitologia.
So che l’incipit di un articolo non dovrebbe essere così personale, ma c’è qualcosa di universale nella precoce fascinazione nei confronti del pantheon greco. Sarà che le storie degli dèi sono fiabe a tinte fosche: sexy, tragiche, dannate, raramente a lieto fine. Che l’iconografia divina ricama da secoli sull’avvenenza o sulla mostruosità. Più spesso su entrambe. A questa tradizione visiva, carica di attributi simbolici di matrice archetipica, si allaccia la saga videoludica Hades di Supergiant Games.
I due capitoli di Hades sono dei cosiddetti rogue-lite. Il genere consta di una particolare meccanica per cui il protagonista, seguendo un percorso invariabile, muore e risorge potenziandosi di volta in volta, simultaneamente producendo alterazioni del suo arco narrativo tramite lo sviluppo delle relazioni con i personaggi secondari e alcuni eventi randomici. Un ruolo fondamentale è giocato dalla sorpresa: i personaggi principali degli Hades, i fratelli Zagreus e Melinöe figli di Ade, ottengono doni casuali quanto a donatore e potenza del dono, generando così partite di efficacia dispari. La maggior parte delle persone che frequentano i videogiochi in maniera casuale sono abituate a strutture più lineare: c’è un mondo aperto o meno, ci sono missioni cominciate e concluse, una serie di fatti si dipanano in un ordine irripetibile dotato di una logica specifica che serve a fare progredire la trama. Qui le cose sono un po’ diverse. Quindi, faccio un esempio.
Trovare il (proprio) filo di Arianna
Zagreus, nel primo Hades (2020), deve scoprire la verità su sua madre Persefone. Il padre, Ade, non sembra voler scucire nulla e gli vieta di vederla perché si trova in superficie, luogo non adatto a chi è portatore di sangue ctonio, sarebbe a dire alle divinità dell’Oltretomba cui Zagreus fa capo. Questo figlio disperato è, dunque, costretto a percorrere il Tartaro, l’Asfodelo e i Campi Elisi in rigorosa sequenza sempre identica, solo per avere un colloquio di alcuni secondi con la mamma. A ogni giro di giostra, tutto quello che Zagreus può strappare a Persefone sono un paio di frasi. Quindi? È costretto a tornare. A rifare tutto daccapo non una o due o tre volte, ma trenta, quaranta o cinquanta volte; talvolta (spesso) molte di più. Inoltre, esiste una forza uguale e opposta alla volontà di Zagreus di penetrare la superficie: si manifesta in centinaia di piccoli mostri, ombre dell’Inferno per lo più, disposte a tutto pur di evitare che il protagonista riesca nell’impresa. Ma (il grande ma) in Hades esistono anche delle forze ambiguamente amiche, che sono proprio gli dèi: Zeus, Atena, Artemide, Ares, Nettuno e non solo puntellano la strada di Zagreus verso l’evasione e gli offrono dei boon, dei miglioramenti che rispecchiano domini mistici. Nettuno potrà potenziare l’attacco speciale di Zagreus con un fiotto violento di acqua, per dirne una; Artemide offrire un dardo appuntito che perseguita i nemici a colpo d’arma scoccato; Atena una temporanea corazza per fendere attacchi cruenti. Per ogni risalita di Zagreus ci sono decine di boon sempre diversi, impossibili da prevedere poiché, appunto, randomicamente generati. A corredo: molte armi con i loro cosiddetti sembianti, aspetti intestati ad altre divinità o personaggi mitologici che ne modificano l’impatto.
Una delle virtù dei videogiochi sta nell’articolazione del processo di apprendimento. È vero e valido per tutte le storie, su qualsiasi medium: una o un protagonista è tenuta/o a insediare lentamente un Mondo Straordinario di cui imparare (con difficoltà) le regole per apportare un cambiamento al Mondo Ordinario. Con un joystick o una tastiera, però, l’effetto è possibilmente raddoppiato perché il processo si accompagna a una gestualità, a un ritmo dei muscoli. Un rogue-lite tipo Hades lo rende tanto più evidente. Nei panni di Zagreus, insegniamo a noi stessi a farci largo in un dedalo da cui uscire mettendo in atto pratiche e strategie, diventando più esperti a ogni singolo tentativo. È un trial and error severo, che obbliga di frequente a memorizzare sequenze spazio-temporali in cerca di un adattamento ideale in condizioni complicate. Ma se quanto ho descritto costituisce la dimensione verticale degli Hades, la dimensione orizzontale addolcisce e ammorbidisce l’esperienza di gioco fino a dare una piccola dipendenza.
Nel dedalo degli affetti
Gli Hades non sono giochi freddi e ripetitivi, unicamente basati sull’acquisizione di una possanza che consente di tagliare il traguardo. Sono storie calorose che raccontano di affetto, perdita, disillusione, amore persino. Nel corso dei vari tentativi di uscita, Zagreus si fa un mucchio di amiche e amici di cui, talvolta, si prende carico. Memorabili, in questo senso, sono alcune side mission quali esonerare Sisifo dal suo celebre supplizio oppure riunire – dopo secoli e secoli – gli estraniati Achille e Patroclo così come Orfeo ed Euridice, dislocati in punti diversi dell’aldilà tra cui non sembra possa esservi comunicazione. In più, ci sono le romance: Zagreus può innamorarsi, in Hades. Io l’ho fidanzato con il bellissimo Thanathos, la Morte in persona. E tuttavia il tempo richiesto per portare a termine queste missioni collaterali è notevole. Possono servire anche cento o duecento tentativi di fuga per ottenere (sempre randomicamente) i dialoghi giusti che sbloccano i pezzetti di una trama frastagliata, che più di ogni altra ha la forma del puzzle da ricombinare. Il coinvolgimento è assicurato, subentra una sorta di testardaggine nello sperare di incontrare Patroclo che si presenta nei Campi Elisi una volta su tre, e non è detto dica proprio quel che Zagreus ha bisogno di sentirsi dire. Non di meno si procede, si incalza, talvolta con ottusità, per sbloccare anche solo due parole o un suono fuoricampo come quello di un bacio. Perché?



