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venerdì, Mag 28

Hikikomori italiani, aumentano i reclusi in casa per scelta



Da Wired.it :

Con la pandemia il numero di chi si ritira dalla vita sociale è cresciuto: attualmente ci sono tra i 120 e i 150mila casi nel nostro Paese. Il 70% è rappresentato da giovani maschi tra i 14 e i 30 anni

Psicologo in ambito scolastico

L’Italia riapre, ma loro restano in disparte. Sono gli hikikomori, che per scelta si ritirano dalla vita sociale e si chiudono in casa, talvolta per mesi o anche per anni. La condizione viene definita un disagio adattivo sociale, colpisce principalmente giovani maschi tra i 14 e i 30 anni (rappresentano almeno il 70%), con un picco nel periodo dell’adolescenza. Mentre in Giappone il fenomeno è ampiamente documentato e ha dimensioni ragguardevoli (lo psichiatra Saito Tamaki ha stimato due milioni di casi nel 2019), in Italia non esiste un’anagrafe degli hikikomori. Ma secondo i calcoli della psicologa Chiara Iliano dell’associazione Hikikomori Italia, “attualmente ci sono tra i 120 e i 150mila casi nel nostro Paese, e i numeri stanno crescendo. Sono per lo più giovani, però abbiamo anche over 40. Si tratta di persone che vivono una forma di disagio sociale spesso confuso con altri problemi, anche di tipo psichiatrico. Eppure, è una condizione specifica, complessa da identificare e che può portare ad altre patologie. Normalmente gli hikikomori non pensano di avere un problema, ritengono invece che la società sia il problema, per cui decidono di estraniarsi”.

Da marzo 2020 viviamo una normalità sospesa: qual è stato l’effetto della pandemia sugli hikikomori?

“Nei mesi di lockdown si è generato una sorta di effetto paradosso”, risponde Chiara Iliano. “Se tutti eravamo chiusi in casa, allora la scelta di ritirarsi era in qualche modo normalizzata. In quel periodo ho riscontrato in alcuni miei pazienti una situazione di maggior calma e una migliore predisposizione ai rapporti famigliari. Con le riaperture, invece, l’ansia è aumentata. Diversi ragazzi hanno fatto molti passi indietro e sono tornati a chiudersi”.

Un blocco che per i genitori di questi ragazzi è rappresentato da una porta chiusa, quella della camera del proprio figlio o della propria figlia.

“La porta chiusa è qualcosa con cui devi imparare a convivere”, spiega Gabriella D’Urso, mamma di Fred Allen, un ragazzo di 23 anni, in ritiro non continuativo da circa sei anni. “All’inizio per le famiglie è molto difficile da accettare, bisogna fare un percorso, e i primi a non capire la situazione e ad aver bisogno di aiuto siamo proprio noi genitori. Per me, per esempio, è stato molto complicato riconoscere che mio figlio non volesse più andare a scuola. Ha sempre avuto tanti interessi, non capivo perché per lui fosse una croce immensa stare in classe con i compagni. Alla fine ha lasciato il liceo. Era in quarta e la maturità non l’ha più presa. Però, ha provato a lavorare: steward per Ryanair, anche grazie al fatto di essere bilingue italiano/inglese: purtroppo è durato solo qualche mese, poi ha mollato ed è tornato a casa”.

Qual è la giornata tipo di un hikikomori?

“Non esiste, questi ragazzi sono tutti diversi”, continua Gabriella D’Urso, che per l’associazione Hikikomori Italia Genitori si occupa dell’accoglienza di nuove famiglie. “In genere, però, sono iperconnessi, utilizzano internet per tenere i contatti con il mondo esterno, per leggere, guardare le serie, seguire corsi a distanza e giocare online. Molti stanno ore e ore davanti ai videogame, soprattutto con quei giochi che permettono di creare personaggi fittizi, con identità che li soddisfano più di quella reale. Un altro tratto comune è lo stravolgimento del ciclo veglia-sonno: spesso sono attivi di notte e dormono di giorno o comunque hanno orari “impossibili” per chi ha una normale vita sociale. Parecchi di loro, infine, hanno avuto problemi a finire gli studi, non per incapacità, ma perché la scuola non è attrezzata per riconoscerli e sostenerli”.

Che cosa si può fare, quindi, in concreto per aiutarli?

Secondo lo psicologo Marco Crepaldi, fondatore dell’associazione Hikikomori Italia e pioniere della materia, i genitori dovrebbero sempre tenere a mente tre punti fondamentali: “Prima di tutto, riconoscere che non lo si sta facendo per se stessi: quando vogliamo a tutti i costi aiutare una persona dobbiamo sempre ricordarci che è per il suo bene, non per il nostro. Quindi, l’obiettivo non deve essere spingere nostro figlio a vivere la vita che noi riteniamo la più giusta per lui, ma semplicemente supportarlo affinché trovi la sua strada (anche se non corrisponde al nostro modello ideale). Poi, bisogna essere consapevoli che l’aiuto arriva fino a un certo punto: l’impatto delle nostre parole e delle nostre azioni sulla vita di un’altra persona non sono in grado di superare mai determinati limiti, non possiamo agire per conto suo e la nostra responsabilità sulle sue scelte è, giustamente, ridotta. Terzo e ultimo punto: dobbiamo continuare a vivere la nostra vita. Quando si ha un figlio in difficoltà si farebbe di tutto pur di aiutarlo, anche sacrificare il proprio benessere personale. Eppure, un atteggiamento di abnegazione rischia di provocare l’effetto opposto in un hikikomori, il quale, sentendo su di sé maggiore pressione da parte dei genitori, potrebbe reagire isolandosi ancor di più. Per questo motivo bisogna sforzarsi di continuare a condurre una quotidianità normale senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d’ordine è sempre e comunque pazienza”.





[Fonte Wired.it]