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giovedì, Lug 23

I fatti di Piacenza dicono che alle forze dell’ordine italiane serve trasparenza



Da Wired.it :

Le parole del capo dell’Arma e la retorica sulle “mele marce” non bastano più: i luoghi di polizia, dalle caserme come quella di Piacenza oggetto di indagine fino alle carceri, devono aprirsi al pubblico. La fiducia nello stato è già minata

Una delle foto dell’inchiesta (Guardia di Finanza)

Dice bene Luigi Manconi sulla Stampa quando scrive che “carcere e caserma sono istituzioni totali (secondo la sempre valida definizione di Erving Goffman), al cui interno, gli operatori (in questo caso poliziotti penitenziari e carabinieri) vivono un’esistenza fortemente integrata, fatta di rapporti camerateschi e solidarietà virile”. Quegli anticorpi di cui parla e che dobbiamo stimolare per limitare al massimo aberrazioni come quella del comando-stazione Levante nel centro storico di Piacenza si costruiscono dunque relativizzandole. Se quelle istituzioni sono assolute perché chiuse e integrate, vanno aperte, spalancandole alla trasparenza. Per esempio rendendo le case circondariali come luoghi effettivi di recupero, con una presenza più capillare di associazioni e realtà lavorative, e trasformando qualsiasi presidio delle forze dell’ordine in centro di servizi ai cittadini. Si può fare sia con il controllo – per esempio l’installazione di videocamere in corrispondenza dei luoghi più sensibili come le camere di sicurezza o gli uffici – che riprogettandole anche sotto il profilo architettonico e funzionale: stazioni, caserme, comandi e carceri non possono essere buchi neri. Devono essere cucine a vista della legalità, o quasi.

Negli ultimi giorni sono state rese note due inchieste raccapriccianti. La prima riguarda il carcere Lo Russo e Cotugno di Torino, dove si sarebbero verificate per anni torture in chiave sistematica, con i detenuti picchiati fra gli sghignazzi e 21 agenti accusati dei pestaggi almeno dal 2017. Non solo: c’è anche l’immancabile copertura del direttore e dei superiori di polizia penitenziaria, che avrebbero prodotto documenti falsi per insabbiare quei fatti. La seconda è appunto quella del gruppo di pericolosi esaltati della caserma piacentina, che gestivano un giro di spaccio sia procurandosi autonomamente la droga tramite intermediari che sottraendo stupefacenti sequestrati nel corso delle operazioni. Oltre a massacrare pesci più o meno piccoli dello spaccio locale, di cui a turno si servivano per la vendita, ai quali rubavano la merce o estorcevano confessioni fasulle per garantire risultati nelle indagini. Un’attività alimentata da 22 persone, fra cui una decina di militari e un finanziere, a cui si sono aggiunti blitz in stile camorristico per assicurarsi prezzi stracciati per auto o altri desideri personali, ricettazione, arresti illegali, estorsioni, party a base di droghe con continue connivenze fra colleghi e così via. Roba da serie tv? No, roba da Italia nel 2020. E c’è anche una prima volta: quella di un luogo del genere – un luogo dello stato – posto sotto sequestro, come fosse una villa dei Casamonica.

Solo un militare di quella stazione non risulta coinvolto, tanto da ribaltare la celebre logica delle mele marce che in molti, come un ritornello, rispolverano a ogni indagine del genere. E ormai sono tante, le indagini del genere. Tante, probabilmente, quante quelle di cui non abbiamo mai saputo nei decenni passati e che adesso invece vengono a galla. Quella logica salviniana per cui “l’eventuale errore di pochi” non deve essere “la scusa per infangare donne e uomini che rappresentano una delle parti migliori del paese”, come ha detto il capo della Lega in Senato.

L’argomentazione è velenosa, perché nessuno pretende di infangare migliaia di carabinieri per mezzo di un’inchiesta. Semmai è il contrario: se continuano così, i carabinieri s’infangano da soli. Per evitare generalizzazioni e aumentare la tutela della stragrande maggioranza di persone perbene con la divisa servono infatti misure efficaci. Perché evidentemente quelle che esistono non funzionano. Le cronache sono piene di prove di questo tipo: lo stupro di gruppo nella camera di sicurezza al Quadraro, Roma, nel 2011, a cui partecipò anche un vigile urbano. Quello fiorentino ai danni di due studentesse statunitensi, nel 2017, conclusosi con condanne e licenziamento dei carabinieri. Senza voler evidentemente riaprire le ferite di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e molti altri. E senza voler documentare i piccoli-grandi abusi quotidiani, la superficialità, le inchieste per corruzione, concussione e truffa.

Il fatto è che anche la retorica del comandante generale Giovanni Nistri, espressa l’anno scorso in una lettera a Ilaria Cucchi e di nuovo ieri al TG1, non basta più. È solo una versione un po’ più civile dei distinguo salviniani. Dopo aver sottolineato la gravità dei reati e garantito il “massimo rigore per l’accertamento in via autonoma disciplinare della posizione dei singoli” (lapalissiano: vorrei vedere che non si applicasse massimo rigore) Nistri ha poi aggiunto la solita postilla di cui non abbiamo più bisogno: “Episodi come questo” – ha detto – “possono minare la fiducia nell’Arma ma ci sono 200mila carabinieri che ogni giorno espletano sul territorio i loro incarichi al meglio delle loro possibilità. Durante i momenti peggiori del lockdown non abbiamo chiuso le caserme, abbiamo avuto 800 contagiati e 10 vittime. Speriamo che quello fatto dai più possa cancellare dalla memoria il male fatto da chi non è degno di indossare questa divisa”.

La fiducia nell’Arma, caro Nistri, è già fortemente minata. Dalle morti senza giustizia, o per le quali la giustizia ha impiegato anni di sforzi per bucare il muro di gomma delle reciproche coperture, anche ad alti livelli. Ed è minata non tanto dai casi specifici quanto dal fatto che quelle istituzioni non sono trasparenti nei luoghi in cui operano, manomettono con facilità le regole d’ingaggio consentite loro dalla Costituzione e dalle leggi, non danno garanzie ai cittadini per l’impossibilità di identificazione degli agenti (che fine ha fatto il codice personale, per esempio nelle operazioni di ordine pubblico?) e in definitiva consentono troppo spesso ad alcuni di elevarsi sopra la generalità degli altri. Invece di sentirsi cittadini con responsabilità in più, molti agenti se ne sentono di meno.

Durante il lockdown quell’appuntato piacentino e la sua gang organizzavano festini a base di droghe, scortavano spacciatori a Milano per rifornirsi e continuavano come se nulla fosse a sfruttare la propria posizione di responsabilità come lasciapassare d’impunità. Lo dicono loro, nelle intercettazioni. Che senso ha, caro Nistri, citare in un orrore del genere i contagiati e le vittime dell’epidemia? Perché, com’è stato fatto in passato, riempirsi la bocca di “onore”, di “valori” e di “atti che non ci appartengono” quando la nostra storia recente è invece piena di ferite di questo genere? Dov’è quell’onore e dove sono gli strumenti che tengono alti quei valori? Per quale ragione, dunque, non dire mai una parola chiara di autoriforma garantendo più controlli, meno tutele reciproche, trasparenza sulle indagini che riguardano agenti – il tema vale per tutte le forze dell’ordine, nessuna esclusa – anche con rapporti periodici e precisi destinati all’opinione pubblica, misure disciplinari immediate e severe a fronte di indizi chiari e un invito al legislatore a ripensare la logica degli spazi di polizia, dove le libertà si restringono spesso oltre ogni limite.

Non dobbiamo isolare le mele marce all’interno delle forze dell’ordine: dobbiamo isolare le forze dell’ordine dalle mele marce. Alzando il livello sotto ogni punto di vista: la formazione, la verifica periodica dei requisiti, l’identificazione dentro e fuori le caserme, i controlli. Non possiamo più contrapporre a questa miseria le storielle del volenteroso carabiniere che porta i farmaci alla vecchina nel borghetto sperduto. Serve un salto di qualità.

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[Fonte Wired.it]