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mercoledì, Mag 12

Idrogeno, Perché l’Europa punta sui camion



Da Wired.it :

La strategia di Bruxelles scommette sui mezzi pesanti, responsabili del 22% delle emissioni, mentre per l’auto il futuro è nell’elettrico

Parcheggio dei camion nel porto di Dublino
Un porto dove convogliano i due terzi del traffico marino dell’intero paese

È l’elemento più diffuso nell’universo. Una risorsa praticamente inesauribile, in grado di ridurre la dipendenza energetica dalle fonti fossili e, di conseguenza, quella geopolitica dai paesi che le producono. L’idrogeno è tra le strade che la Commissione europea intende seguire per portare a zero le emissioni entro il 2050. Non è la principale. La strategia della Commissione guidata da Ursula Von der Leyen si basa sull’elettricità: nella visione di Bruxelles, l’idrogeno trova spazio come alternativa quando l’elettrificazione non è possibile o è sconsigliata. Anche perché, per ottenerlo, il ruolo della “corrente” è fondamentale.

Cioonostante dall’aviazione alla nautica alla siderurgia ai trasporti, le applicazioni – e il consenso –  non mancano.  Senza contare il fatto che, assieme ad altre tecnologie (come il vehicle to grid) rappresenta una risorsa utile per stoccare l’energia prodotta quando i consumi sono bassi e impiegarla, poi, durante i picchi, per esempio d’inverno.  Un tema sempre più centrale in un mondo basato sulle rinnovabili, che scontano forte stagionalità e dipendenza dal meteo.

Tutti i colori dell’idrogeno

Nero, grigio, blu, verde, viola, turchese: sono sei le parole chiave da tenere a mente quando si parla di idrogeno e corrispondono alle modalità con cui la molecola può essere prodotta. Perché, nonostante costituisca il 75% della materia dell’universo, sulla Terra l’idrogeno non si presenta quasi mai da solo, ma in composti: dall’acqua agli idrocarburi.

Il 97% di quello ottenuto attualmente proviene da processi di reforming che utilizzano combustibili fossili, dal carbone (idrogeno “nero”) al metano (il cosiddetto idrogeno “grigio”). In questi casi, come prodotto di scarto, viene liberata nell’aria anidride carbonica. L’opzione blu prevede il ricorso a soluzioni di cattura e stoccaggio della CO2 prodotta durante queste lavorazioni. Oggi si riesce a recuperarne fino al 90%. Si tratta di una soluzione che limita l’impatto ambientale.

Il discorso cambia decisamente con l’idrogeno verde. Viene denominato così il gas ottenuto tramite elettrolisi dell’acqua, a condizione che il processo sia alimentato da energie rinnovabili (senza emissione, quindi, di anidride carbonica nella filiera). Meno citato è il cosiddetto idrogeno viola, ottenuto (sempre per elettrolisi) alimentando gli impianti con energia nucleare. La tavolozza si completa con il turchese: si tratta di idrogeno ricavato dal metano, ma il cui prodotto di scarto è carbone. Anche il fisico italiano (e premio Nobel) Carlo Rubbia ha lavorato a questo metodo, detto pirolisi. La tecnologia, però, non è ancora giudicata matura dal punto di vista industriale.

Recenti analisi di Deloitte confermano che l’idrogeno verde, quello, per così dire, più “amico” dell’ambiente e che oggi viene utilizzato solo in progetti pilota di piccola taglia, non è ancora competitivo con quello blu, e non lo sarà a lungo. Ci sarebbe partita se il costo dell’energia fotovoltaica si aggirasse attorno ai 30 euro al megawattora. Ma si tratta di uno scenario da cui siamo ancora lontani: secondo le stime della società di consulenza, potrebbe essere necessario attendere addirittura il 2050 perché diventi l’alternativa più economica, grazie alla riduzione dei costi di energia rinnovabile ed elettrolizzatori.

Distribuzione di idrogeno (foto: Dirk Vorderstraße / Flickr (CC BY 2.0))
Distribuzione di idrogeno (foto: Dirk Vorderstraße / Flickr (CC BY 2.0))

La strategia europea punta sui camion

Se è ormai abbastanza diffusa l’idea che l’idrogeno sia un’alternativa di valore per il traffico aereo e navale, il discorso è molto diverso per le quattro ruote. L’entusiasmo è calato nel corso del tempo.

Un ingegnere torinese, Massimiliano Longo, aveva sviluppato un sistema per utilizzare l’idrogeno nelle automobili già nei primi anni Settanta del secolo scorso. Esperimenti di veicoli dal potenziale commerciale da parte delle case automobilistiche risalgono all’alba del millennio: allora l’Unione europea guardava con interesse a quella che pareva l’unica strada percorribile per la mobilità pulita, al punto da stanziare circa un miliardo di euro per progetti di ricerca ad ampio raggio (quindi non solo sui trasporti).  Progetti in cui erano coinvolti anche i produttori. “Ma a un certo punto – rivela a Wired un esperto professionista coinvolto nelle politiche comunitarie che preferisce non essere citato, pur di contribuire al pezzo dribblando la burocrazia dell’ufficio stampa – l’industria automobilistica si è sganciata. Le case hanno continuato a dire ‘andremo in produzione fra cinque anni’ spostando la data sempre più in là: ma, alla fine, non l’hanno mai fatto. Il risultato è che oggi sono rimasti in gioco solo gli asiatici”.

Gli scenari si sono modificati. La concorrenza dell’elettrico, con la rapida evoluzione delle batterie al litio, non è l’unica ragione. “Innanzitutto c’è un problema di costi, perché le fuel cell (che alimentano le vetture a idrogeno, ndr) contengono platino, metallo il cui prezzo è ancora alto – riprende la fonte -. In secondo luogo, per impostare una vera strategia di questo genere bisognerebbe partire dal presupposto che sia disponibile una quantità di idrogeno verde sufficiente a farci muovere tutti. E ci sono forti dubbi sul fatto che ciò sia possibile”. 

Il terzo problema è quello del rifornimento: gli impianti a idrogeno possono costare moltissimo. “Le nostro stime dicono tra 1,5 e 1,8 milioni di euro ciascuna“, afferma Giorgio Barbieri, partner di Deloitte specializzato nel settore automotive. Un impianto elettrico costa molto meno, da decine a centinaia di migliaia di euro.

Al momento il vantaggio è nei tempi di rifornimento. Una macchina elettrica viene tipicamente ricaricata di notte e a bassa potenza. Per la mobilità pesante, cioè i camion, ricaricarsi in fretta è, invece, una necessità vitale. Ma le elevatissime potenze richieste sono troppo costose da installare nelle stazioni di servizio. Con l’idrogeno, invece, è possibile ripartire in fretta: il tempo di un caffè e di una pausa per sgranchirsi le gambe. “I camion rappresentano il 2% dei veicoli in circolazione in Europa ma pesano per ben il 22% quanto a inquinamento: cambiarne la propulsione consentirebbe di ottenere un guadagno oltremodo significativo per l’ambiente”, osserva Barbieri.

Per favorire il traffico merci c’è un progetto europeo allo studio. “Presenteremo la proposta di realizzare una stazione di servizio ogni 200 chilometri sui corridoi continentali”, annuncia la fonte. Il processo decisionale dell’Unione, però, ha tempi lunghi. “Resta da vedere se tutti i paesi approveranno tale investimento, quando c’è il rischio di non vedere arrivare poi i camion che queste infrastrutture dovranno usarle“, prosegue l’esperto.

La strada da percorrere è lunga. Per dare un’idea, attualmente, in Italia è attiva una sola stazione di rifornimento pubblica per veicoli a idrogeno, a Bolzano, realizzata nel 2012 (fonte: Snam). Snam ha recentemente annunciato l’intenzione di realizzare cinque impianti entro il 2024. Anche perché la molecola può essere, con qualche cautela, trasportata nelle stesse condutture del gas, il core business dell’azienda. Nel Pnrr  del governo Draghi sono previsti fondi per stazioni di ricarica per veicoli e treni.

Perché Giappone e Corea ci credono

In Asia l’approccio è diverso. I governi di Giappone e Corea hanno investito molto sulla tecnologia. Hyundai e Toyota sono sul pezzo. Le ragioni di questa scelta? “Innanzitutto sono Stati che non dispongono degli spazi fisici necessari a produrre grosse quantità di energia con fonti rinnovabili“, continua il professionista sentito da Wired. In secondo luogo, aggiunge, “in quei paesi il dispiegamento dell’infrastruttura richiede la copertura di una superficie limitata e ben pianificabile. I piani di sviluppo coreani, stilati sotto la regia del governo e che ho avuto modo di vedere, includono anche le stazioni di servizio. Perché è inutile girarci attorno: senza di quelle, il settore non parte”.

Anche in Estremo Oriente, però, si sta cercando un compromesso. Per fare a meno di idrocarburi e reattori nucleari, il Giappone starebbe lavorando a una soluzione alternativa. Tokyo potrebbe aggirare il problema della produzione di energia pulita sul proprio, esiguo, territorio collaborando con l’Australia. Che gode di spazio in abbondanza, e da cui il gas sarebbe fatto arrivare via mare grazie a una innovativa nave cisterna. Una sfida tecnologica di tutto rispetto, considerando che deve essere stoccato ad altissime pressioni con temperature vicine allo zero assoluto.

 

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[Fonte Wired.it]