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lunedì, Nov 16

Il boom delle gallerie virtuali ricorda gli esordi di Second Life



Da Wired.it :

Nella corsa alle mostre virtuali si rivedono gli stessi meccanismi della colonizzazione di Second Life 15 anni fa. Si comincia con qualche grande museo, e poi a seguire gli altri. Speriamo solo che non sia un’(ulteriore) occasione persa

In questi mesi di pandemia per certi aspetti mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, al 2006, al periodo del boom dei mondi virtuali e, in particolare, di Second Life. Nei giorni del lockdown mi è venuto in mente un curioso personaggio che lo frequentava. Si chiamava Gideon Television e, per una sorta di esperimento sociale, aveva costretto il suo avatar a confinarsi per settimane all’interno della sua casa virtuale. La sua controparte virtuale si sentiva costretta e lui provava le stesse sensazioni nella realtà. Una prova generale di lockdown, vissuta trasversalmente, al di là dello schermo.

Adesso avviene il contrario: il lockdown c’è nella vita vera, e tuttalpiù si possono fare delle gran passeggiate nei mondi virtuali. In Second Life, in Sansar e in altri territori digitali covid-free si può girare tranquillamente senza mascherina, si possono fare assembramenti, ci si può abbracciare, senza per questo essere negazionisti. Di là dallo schermo si può ancora vivere normalmente, come si faceva prima di rendersi conto di quanto fosse preziosa la banalissima normalità.

In un modo o nell’altro, che piaccia o no, la pandemia ha risvegliato l’interesse per il virtuale. La gente ne parla sempre più, da quando vanno di moda le call via Zoom. Fino a un anno fa quella parola veniva un po’ snobbata, si guardava con sufficienza chi proponeva visite virtuali, gite virtuali o qualsiasi altra cosa fosse virtuale. Adesso no, si usa quel termine con una inaudita naturalezza che non può fare a meno di stupire. Per quanto non manchi mai la domanda: “Ma c’è ancora Second Life?”, si accettano di buon grado tutta una serie di esperienze che avvengono nel mondo immateriale del web. Si fa di necessità virtù, o di necessità virtuale, se preferite.

Si parla tanto di gallerie virtuali e di mostre virtuali. In primavera c’è stata la prima ondata: restano impresse le viewing room di Art Basel e di Frieze, che in realtà erano ambienti di comunicazione, luoghi lontanissimi da quelli fisici architettonici dove gli spazi erano definiti dai video e dai contenuti multimediali. Create senza porsi il problema di realizzare una replica di una galleria, sono tra gli esempi più evoluti della nuova architettura virtuale: spazi veramente immateriali, stanze senza pareti dalle geometrie instabili, plasmate in tempo reale soltanto da suoni e immagini.

Sempre in primavera si sono visti altri esempi interessanti, come il VSpace della galleria Massimo De Carlo. Una replica della galleria stessa, molto minimale, dove ci si muove con i tasti del computer o con il visore. Si possono vedere le opere e avere un’idea di immersività. Una buona alternativa alla visita in presenza, preclusa in tempo di pandemia. Come è stato detto, in questo periodo tutto è estremamente accelerato, si bruciano le tappe e le mode si consumano più in fretta. Così, dopo la sperimentazione, esaurita nel giro di pochi mesi, si è passati alla legittimazione, che è arrivata con la prima mostra virtuale del Centre Pompidou. Si tratta dell’esposizione dedicata al celebre trittico Blu I, Blu II e Blu III di Joan Miró, esposto per la prima volta nel 1961 alla Galerie Maeght di Parigi.

Il grande pregio del progetto è, appunto, di aver sancito l’importanza delle mostre virtuali, che cominciano a essere considerate strumenti essenziali per qualsiasi tipo di esposizione. Sia perché permettono di salvare la mostra quando i musei devono restare chiusi, sia perché rappresentano un valore aggiunto. La mostra del Centre Pompidou, ideata da WAOLab, punta sulla semplicità. Il visitatore si può muovere liberamente, senza costrizioni, e farsi un’idea della struttura della mostra, ammirando le singole opere, approfondendo poi nel sito del museo. La grafica è essenziale, le texture anche, e questa esposizione ha soprattutto un valore testimoniale, afferma l’importanza di avere un avamposto anche nel virtuale. Si ripete la storia di quindici anni fa, quando i grandi brand piantavano una bandierina in Second Life: l’importante era esserci. Vale più la notizia, la comunicazione, dell’evento stesso. Una formula, questa, che spiega molto bene tre quarti della storia del virtuale.

E adesso che c’è il Centre Pompidou, è facile immaginare che a breve arriveranno gli altri. Tanti altri. È come quando un pugno di vip scopre e colonizza un nuovo territorio, aprendo la strada alle masse. Si comincerà con qualche grande museo, e poi uno dopo l’altro, tutti faranno a gara per avere la propria galleria virtuale. È già successo e probabilmente succederà di nuovo.

Però, sarebbe bello pensare che non sia un’occasione persa. Finora sono stati i rari i cortocircuiti tra reale e virtuale, che hanno quasi sempre vissuto a compartimenti stagni: l’architettura del mondo vero parla una lingua, quella del mondo virtuale un’altra. Stesso discorso per l’arte. Perché? E soprattutto, perché si tende a semplificare la grammatica espressiva di ciò che viene proposto nel virtuale? Perché le gallerie sono semplificate, perché le scene domestiche dei mondi virtuali ricreano malinconicissime atmosfere artificiali da case melodrammatiche, che non esistono neanche nei film più melensi del Neorealismo? Perché continua a esserci uno scollamento tra reale e virtuale?

Qualche mese fa ho stilato un decalogo con quelle che reputo le buone pratiche per progettare una galleria virtuale nel 2020. Si parla di architetture che si modificano in tempo reale, assecondando lo stato d’animo del visitatore; di opere che vengono ingrandite o rimpicciolite in base all’attenzione a loro riservata, con calcoli eseguiti dall’intelligenza artificiale; di avatar umani che vengono teleguidati dagli spettatori virtuali delle mostre; di scenari emozionali (né più ne meno di quelli della domotica) che contribuiscono a creare un’esperienza più immersiva. Sono soltanto alcune possibili suggestioni.

Le potenzialità sono enormi, la tecnologia permetterebbe soluzioni innovative, però ancora non si vedono tante cose sensazionali. Tra le poche eccezioni, le architetture di Dario Buratti, uno dei progettisti più abili e visionari dei mondi virtuali, richiestissimo in Sansar come in Second Life. Un’archistar del web che attende di essere scoperto dalla critica ufficiale.

In generale, passando in rassegna le soluzioni proposte finora in questo settore, mi sembra di vivere un dejà vu: le gallerie virtuali sono di moda, se ne parla, si visitano, si racconta agli amici di esserci stati, ma poi c’è poco da dire, se non che è sempre meglio la realtà. E così, anche a questo giro, si rischia di perdere un’occasione d’oro.

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[Fonte Wired.it]