Seleziona una pagina
mercoledì, Mar 25

Il buco, il film di Netflix è la metafora facile facile del presente che viviamo



Da Wired.it :

La stratificazione sociale in una prigione a livelli per affermare le più scontate delle metafore. Lo sappiamo già e ci piace sentircelo dire un’altra volta: il mondo è ingiusto

Piccolo trattato di socio-politica in una forma superficialmente accattivante ma sostanzialmente ripetitiva e derivativa, Il buco (film spagnolo acquisito e distribuito da Netflix), arriva con un messaggio facile facile già incorporato, nel momento migliore perché il pubblico si possa identificare. Nei giorni in cui siamo reclusi e ci interroghiamo su provviste, leggiamo di code ai supermercati e temiamo che arrivi l’ora della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, Il buco racconta con grande abuso di metaforoni di un uomo intrappolato in una specie di prigione/esperimento sociologico mortale. La struttura in cui il protagonista è recluso si sviluppa solo in verticale, piano sopra piano, stanza sopra stanza, tutte collegate da un gigantesco buco quadrato al centro, come una tromba delle scale senza scale. Non si vede il fondo né la cima. In quel buco una volta al giorno viene calata una piattaforma di vivande dal piano più alto al più basso. Ogni piano ha qualche minuto per mangiare e poi la piattaforma di vivande scende a quello successivo. Ci sarebbe da mangiare per tutti se quelli dei piani alti non lo saccheggiassero selvaggiamente e così chi sta sotto non riceve nulla, una piattaforma vuota.

Il punto di tutto il film è mettere in metafora fantascientifica la stratificazione sociale, facendo viaggiare il protagonista di piano in piano. Prima sarà in mezzo, dove gli viene spiegato tutto e assiste, ancora idealista, al passaggio del cibo cercando di cambiare la situazione, poi finirà più in basso dove non arriva più niente e la gente si cannibalizza, dove la violenza regna sovrana, infine in altissimo dai privilegiati dove forse qualcosa può essere davvero cambiato. Assurdo pensare di fare le pulci alla sceneggiatura, Il buco sacrifica tutto sull’altare delle metafore e dei simboli, il cibo è simbolo del benessere, una panna cotta diventerà il simbolo della purezza assieme ad un bambino (ah! L’innocenza…), un romanzo quello delle velleità e delle spoglie civili da divorare come un coltello quello della violenza (non è difficile). Chi, cosa, come e dove, vengono dopo.

Il problema grosso di Il buco non è il suo voler essere comprensibile da tutti, cosa più che encomiabile, ma il fatto per farlo sia disposto ad appiattirsi fino ad un unico possibile livello di lettura. Questa storia di diversi livelli da salire e scendere ha una sola possibile lettura, quella decisa dagli autori, non pone nessuna domanda ma dà solo delle risposte, un’enunciazione lunga un film in cui sembra non ci sia grande spazio per lo spettatore. Facile impressionare con i suoi presupposti, più difficile rimanere impresso con le sue conclusioni abbastanza convenzionali (l’uomo è un profittatore, chi ha dei privilegi non si cura di chi non li ha, il problema della società è la mancanza di empatia, quando in difficoltà si diventa violenti), mostrate con uno stupore e un senso di sorpresa abbastanza risibili. Versione rimaneggiata e impoverita di qualsiasi vero film di fantascienza a sfondo sociale, Il buco è così facilmente digeribile perché qualcuno (gli autori) l’ha già masticato per il pubblico.

Galder Gaztelu-Urrutia (regista esordiente) ruba un po’ a destra e a manca i punti fermi della distopia, dalle uniformi simil-metalmeccanico in grigio chiaro fino agli ambienti scarni e lisci, forme pulite ed essenziali da galera pericolosa del futuro, e poi i livelli da attraversare e i meccanismi letali che The Cube inventava solo 20 anni fa. E anche volendo vedere il film come macchina di tensione, come strumento di intrattenimento a basso costo, è evidente che più avanza più diventa fallace. Come i tre fantasmi di Dickens il protagonista avrà tre compagni di stanza: il sanguinario profittatore, l’anima di buon cuore, e il coraggioso equilibrato che ha un po’ dei precedenti due. Ma se inizialmente tutto si regge bene sull’onda dell’introduzione al concept stringente e ben pensato del film, più si va avanti più si fa strada la difficoltà a tenere lo spettatore saldo.

Il percorso sarà una specie di purificazione che passa per una passione e resurrezione (quasi), l’atmosfera è sempre più rarefatta e più il protagonista si avvicina al suo ruolo di “prescelto” o scardinatore dei meccanismi, più il film aspira a perdere i connotati di azione e tensione per acquistarne di più elevati e sofisticati, per i quali non pare proprio adeguato né pronto. Galder Gaztelu-Urrutia è bravo a fare un uso intelligente di quel che ha, un set solo da far sembrare moltiplicabile, pochi attori e pochi ambienti per una gran quantità di punti di vista e inquadrature diverse che non annoino, ma non è bravo a sufficienza da rendere accettabile una corsa finale che corsa non è, ma più una camminata piena di soste, al termine della quale c’è l’insoddisfazione.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]