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martedì, Giu 25

Il cambiamento climatico causerà un nuovo apartheid, dice l’Onu


Secondo Philip Alston, relatore delle Nazioni Unite sui diritti umani, saranno i poveri a subire le conseguenze più violente del climate change

(foto: ISSOUF SANOGO/AFP/Getty Images)

Lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e la maggior incidenza di eventi catastrofici come frane e alluvioni non sono le uniche conseguenze del cambiamento climatico. Secondo le Nazioni Unite sono a rischio anche la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. “Rischiamo un apartheid climatico dove i ricchi pagano per fuggire dal surriscaldamento, dalla fame e dai conflitti mentre il resto del mondo rimane lì a soffrire”, ha detto Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani.

Non è la prima volta che l’Onu avverte gli stati sulle possibili conseguenze del cambiamento climatico sui diritti umani. Durante l’ultima conferenza sul clima organizzata in Polonia a dicembre, vari esperti dell’Onu avevano invitato gli stati ad approvare misure di contrasto al cambiamento climatico basate proprio sulla tutela del diritto alla vita e alla salute. Inoltre, il 13 maggio scorso, l’organizzazione e le popolazioni indigene delle isole dello stretto di Torres, in Australia, hanno accusato il governo di Canberra di mettere a repentaglio la loro sopravvivenza a causa delle misure insufficienti a proposito dell’innalzamento del livello dell’acqua.

Le parole di Alston anticipano un report che verrà presentato venerdì a Ginevra e che costituisce un importante atto d’accusa nei confronti di tutti gli stati, delle ong e delle aziende. Le loro soluzioni, sostiene il relatore, sarebbero “del tutto sproporzionate rispetto all’urgenza e all’entità di questa minaccia [il cambiamento climatico]”.

Chi si salverà?

Philip Alston, relatore della Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani (foto: WANG ZHAO/AFP/Getty Images)

Alston è preoccupato che il cambiamento climatico azzeri tutti i progressi fatti in materia di diritti umani, salute globale e riduzione della povertà negli ultimi 50 anni, per due motivi. Innanzitutto, si stima che a fare le spese di questa trasformazione saranno i paesi del terzo mondo che emettono solo il 10% delle emissioni di gas serra totale. C’è poi un problema connesso alle disuguaglianze economiche. I più ricchi, volendo, potranno emigrare in aree meno colpite dal cambiamento climatico e sopravvivere. Per gli altri, invece, non ci sarà via di fuga.

Alston cita a questo proposito quanto successo negli Stati Uniti nel 2012. “Quando l’uragano Sandy si è abbattuto su New York, creando disagi enormi agli abitanti di classi basse che non avevano accesso all’elettricità e al sistema sanitario, il quartiere generale di Goldman Sachs è stato protetto con decine di migliaia di sacchi di sabbia ed è stato alimentato coi suoi generatori”.

Se non si risolve questo problema, avverte il relatore, il malcontento  e le difficoltà porteranno le persone a esprimere posizioni sempre più nazionaliste, xenofobe e razziste.

Il j’accuse

Secondo Alston, la situazione attuale è frutto di un’irresponsabilità comune a organizzazioni non governative, imprese e stati. “Le nazioni hanno calpestato qualsiasi allarme scientifico e oltrepassato ogni soglia, e quello che una volta era considerato uno scenario catastrofico oggi viene descritto come uno scenario ottimistico”, dice. Lo stesso accordo di Parigi non sarebbe abbastanza, a detta del relatore, che punta il dito anche contro se stesso e i suoi colleghi, rei di non aver contribuito a rendere da subito questo un tema centrale nell’agenda mondiale.

Alston accusa direttamente anche due presidenti: Donald Trump e il brasiliano Jair Bolsonaro. Il primo avrebbe messo a tacere il dibattito sul cambiamento climatico; il secondo, invece, è accusato di aver dato il via libera all’estrazione mineraria anche nella foresta Amazzonica, aumentando il rischio di deforestazione.

L’unica fonte di speranza in questo contesto, dice Alston, resta Greta Thunberg, la teenager svedese che da mesi cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo e ha creato i cosiddetti Friday for Future, durante i quali gli studenti scendono in strada e chiedono ai loro governi di agire prima che sia troppo tardi.

Questa crisi dovrebbe convincere gli stati a far fronte a diritti economici e sociali a lungo ignorati, come l’accesso al cibo, al sistema sanitario e ad un lavoro decente”, si legge nel report. “Il cambiamento climatico è una questione di diritti umani proprio per l’impatto che ha. Spetta in primis agli stati tutelare i diritti umani ed evitare violazioni. Uno stato che non adotta misure fattibili per ridurre le emissioni di gas serra è uno stato che non adempie ai suoi obblighi”.

 

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