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mercoledì, Dic 11

Il cambio di rotta sull’immigrazione finora non c’è stato


Tante parole, ma pochi fatti: dopo i taxi del mare e i porti chiusi, in realtà le cose sono cambiate (in parte) solo a livello di comunicazione. Nella pratica, la linea sull’immigrazione resta dura

(foto: ANGELOS TZORTZINIS/AFP via Getty Images)

A fine ottobre, durante un incontro con le ong impegnate nel Mediterraneo, tra le mura del ministero dell’Interno italiano sono rimbombate le parole: pull factor. Non le ha pronunciate Matteo Salvini, che sulla teoria (smentita) delle navi umanitarie che con la loro semplice presenza in mare aumenterebbero le partenze dei migranti dalla Libia ha fondato gran parte dei suoi proclami sovranisti; è stato il suo successore al Viminale, la ministra Luciana Lamorgese, a tirare in ballo quel ritornello, aggiungendo peraltro di voler introdurre un nuovo codice di condotta per le organizzazioni non governative, sulla linea di quello già controverso del 2017.

Potrebbe sembrare un momento di appannamento, per un governo che si credeva avrebbe impresso un drastico cambio di rotta alla politica dei porti chiusi e alla dialettica dei taxi del mare che aveva contraddistinto la stagione giallo-verde. A ben vedere però, la posizione tenuta dal Viminale in occasione di quell’incontro con le ong riflette al meglio la linea del nuovo governo sul tema dell’immigrazione, che sotto molti aspetti ricorda quella del precedente.

Leggendo la cronaca nazionale, è spesso difficile capire in che anno ci troviamo, se nel 2019 di Lamorgese o nel 2018-2019 di Salvini. A ottobre, la nave Ocean Viking ha dovuto vagare per ben dieci giorni, con a bordo donne incinte e decine di minori, prima che le venisse assegnato un porto di sbarco dal governo italiano. Ci sono voluti invece otto giorni di navigazione perché la Alan Kurdi ottenesse, il 3 novembre, l’autorizzazione ad attraccare al porto di Taranto, con lo sbarco degli 88 migranti a bordo. La scena si è poi ripetuta a metà mese, quando le imbarcazioni Ocean Viking, Open Arms e Aita Mari hanno dovuto attendere alcuni giorni prima di poter sbarcare le persone a bordo. Lo scorso 3 dicembre, infine, dopo soli sei giorni di attesa la Alan Kurdi, con a bordo 61 persone, ha potuto attraccare a Messina.

Le differenze tra ieri e oggi ci sono, ma appartengono più alla sfera delle parole che ai fatti. Anche perché la dialettica dei porti chiusi di matrice salviniana era, appunto, quasi solo dialettica. I numeri dimostrano che durante il suo incarico i porti non sono mai stati chiusi: si trattava piuttosto di uno show mediatico volto a coprire gli arrivi reali. In quel periodo sono sbarcate circa 15mila persone, quasi per la totalità sbarchi autonomi e fantasma (solo il 10% invece da ong). Oggi la comunicazione istituzionale è cambiata, la criminalizzazione del lavoro delle ong da parte del Viminale non c’è più. O meglio: c’è ma è camuffata. Quello che non cambia, di sicuro, è l’assenza di un automatismo nell’assegnazione di un porto di attracco.

Quella a cui assistiamo oggi è sì una riapertura dei porti con tempi di assegnazione più veloci, ma le navi continuano a dover attendere in mare, magari non più per settimane come prima, ma comunque per diversi giorni, nel freddo dell’inverno nei casi più recenti. Siamo ancora in una situazione di violazione del diritto internazionale applicabile ai soccorsi, che vorrebbe che lo sbarco avvenisse il prima possibile”, sottolinea a Wired Giorgia Linardi, la portavoce di Sea Watch Italy. “Certamente l’approccio degli altri stati europei non aiuta: è anche comprensibile che la ministra Lamorgese tenga all’idea della ricollocazione automatica come presupposto per lo sbarco. Però bisogna far fronte al fatto che gli arrivi non sono quelli della cosiddetta invasione che si racconta, dunque non si può trascurare la necessità di creare condizioni idonee per l’accoglienza nel nostro paese, che è assolutamente possibile con questi numeri”.

La nave della sua organizzazione, la Sea Watch 3, è intanto ancora bloccata in porto, sotto sequestro da quando nel giugno scorso la capitana Carola Rackete è entrata unilateralmente nelle acque territoriali italiane, per mettere in salvo i 53 naufraghi a bordo da 17 giorni. In realtà la nave è stata dissequestrata per quell’episodio, ma permane il sequestro amministrativo in applicazione del decreto sicurezza bis di Matteo Salvini. “Questo dimostra che con il nuovo governo non è cambiato assolutamente nulla per quanto riguarda gli effetti di queste leggi sulle ong”, spiega Linardi. “A oggi sono ben quattro le navi sotto sequestro e non si è agito a livello politico per risolvere la situazione. C’è grande delusione da parte nostra: siamo consapevoli che ci vogliono dei tempi tecnici e le cose non cambiano da un giorno all’altro, però sono ormai passati oltre tre mesi dall’insediamento”.

Come la Sea Watch 3, anche le navi Mare Jonio e Alex di Mediterranea, così come la Eleonore di Lifeline, sono ferme nei porti siciliani, senza che venga loro dato l’ok per tornare a salvare vite in mare. Qualche settimana fa il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio dei ministri e ai ministri dell’Interno, delle Infrastrutture e trasporti e della Difesa, per chiedere di liberare queste navi. Sono seguiti altri appelli, che non hanno al momento avuto ascolto. Le misure salviniane continuano a dispiegare i loro effetti, di tanto in tanto la ministra Lamorgese annuncia l’intenzione di intervenire su quei testi. Ma se fino a ora nulla è stato fatto da quel punto di vista, sotto altri aspetti si è arrivati addirittura a strizzare l’occhio alla comunicazione che ha contraddistinto gli ultimi governi.

Quello del nuovo esecutivo è un linguaggio minnitiano, e in effetti nell’approccio della nuova ministra dell’Interno riconosciamo molti tratti comuni con la politica dell’ex ministro Minniti”, continua Linardi. Da una parte ci si riappropria di argomenti come quello relativo al pull factor, dall’altra ritornano vecchie cospirazioni. Nella dichiarazione di Malta di settembre, vi sono ad esempio ancora allusioni alle navi umanitarie che attirerebbero con il lampeggiamento dei fari i gommoni guidati dai trafficanti. “Sono cose che non avevano senso nel 2017 e che ne hanno ancora meno oggi. In questi due anni, con il processo di criminalizzazione che ci ha riguardati, ci sono state almeno cinque procure delle Repubblica che hanno indagato sulle nostre attività senza arrivare a nulla. Inoltre, sono usciti nuovi studi accademici e scientifici che smentiscono quelle teorie”, chiosa Linardi.

Uno di questi studi è quello a proposito del pull factor pubblicato a novembre dall’European University Institute, a firma di Matteo Villa ed Eugenio Cusumano. I due ricercatori hanno esaminato i dati mensili sulle partenze dal 2014 e, ribadendo quanto già stabilito da altri studi, hanno negato l’esistenza di una relazione diretta tra il numero delle partenze dalle coste libiche e la presenza delle navi di soccorso nel Mediterraneo. Piuttosto, sono le questioni a terra a influire: la situazione in Libia, ma anche gli effetti dei memorandum firmati nel 2017. Le ong, insomma, non hanno alcun potere di attrazione, ma solo un ruolo di soccorso nei confronti di imbarcazioni che ci sarebbero comunque.

La parola pull factor continua a restare dentro al ministero per inerzia istituzionale, la si dà per scontata e si prende poco in considerazione chi dice che mancano evidenze del fatto che le ong abbiano un potere attrattivo”, sottolinea a Wired lo stesso Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), che snocciola altre congruenze tra l’esecutivo attuale e quello precedente. “Per quanto riguarda il primo decreto sicurezza salviniano, dal nuovo governo non è arrivato alcun accenno a restaurare la protezione umanitaria. Non c’è l’intenzione di pensare a come regolarizzare chi si trova qui, tranne che citando la solita questione dei rimpatri”. Essi saranno circa 7mila quest’anno, su 600mila irregolari che si trovano sul territorio nazionale. Servirebbero 90 anni per risolvere in questo modo la questione dell’irregolarità. “Per quanto riguarda il decreto sicurezza bis, poi, non sembra esserci l’idea da parte del nuovo esecutivo di tornare sui propri passi. Forse si ammorbidirà l’aspetto delle multe nei confronti delle navi che fanno soccorso, ma permarrà la facoltà di vietare l’ingresso nelle acque territoriali”, continua Villa.

Nel frattempo gli sbarchi sono aumentati negli ultimi mesi. Questo potrebbe spiegare la linea dura sull’immigrazione del nuovo governo, una sorta di autodifesa per cui si evita di prendere decisioni scomode che andrebbero spiegate all’opinione pubblica. In realtà basterebbe raccontare i dati.L’aumento degli sbarchi da settembre a oggi è spiegabile con le condizioni meteo favorevoli alle partenze. Resta poi un residuo che è leggermente più alto rispetto all’anno passato, ma talmente di poco che non è significativo”, conclude Villa. “Nonostante gli attuali aumenti percentuali, i numeri di settembre rispetto ad esempio al 2016 sono del -85%, a ottobre del -93% e a novembre del -91%. Quando si parla di numeri piccolissimi, come nel caso della differenza 2018-2019, non ha senso fare paragoni; è piuttosto in confronto al 2016 che si notano le reali differenze. Ci troviamo tuttora nel periodo di sbarchi più basso degli ultimi vent’anni”.

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