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mercoledì, Lug 10

Il caso del giudice Bellomo, un #MeToo alla barese


Quello del giudice barese che imponeva “contratti di schiavitù sessuale” ripropone le dinamiche del caso Weinstein: da una parte l’orco, dall’altra la vittima che non si sottrae al sistema in nome di una carriera (che qui è nella legge)

Il fatto è grave: secondo le accuse un ex giudice barese del Consiglio di stato torturava psicologicamente aspiranti magistrati. Negli ultimi 8 anni, fino a qualche settimana fa, futuri giudici e pm sono stati formati per il concorso in magistratura da un uomo, Francesco Bellomo, che le molestava, le maltrattava, le ricattava. Ora è stato arrestato, è ai domiciliari. Ma la faccenda alimenta la bufera che già da tempo si sta abbattendo su una magistratura impelagata in scandali che la feriscono fino al cuore del suo Consiglio superiore, infangata da sentenze pilotate e scontri tra correnti molto violenti.

Per anni corsiste e ricercatrici erano divenute vittime dei soprusi e delle perversioni che avvenivano dentro e fuori la Scuola di formazione giuridica avanzata diritto e scienza di Bellomo, indagato insieme all’ex pm di Rovigo Davide Nalin, la sua sentinella.

Erano desiderose di partecipare ai corsi post-universitari per la preparazione al concorso in magistratura, ma si erano ritrovate a sottoscrivere un “un contratto di schiavitù sessuale”, come lo definisce una ragazza. La domanda è d’obbligo, visto che secondo le statistiche dello stesso Bellomo oltre 50 magistrati in servizio sarebbero stati da lui formati: come vengono allevati i futuri magistrati? Che credibilità hanno davanti ai cittadini che sono chiamati a giudicare? Perché le vittime, persone laureate, intelligenti e con alte aspirazioni sarebbero state soggiogate molto velocemente da un mentore divenuto orco. Evitando di confondere vittime e carnefici, quel contratto è stato firmato da chi non era ancora stato soggiogato, da chi era restato ammaliato dalla cultura dell’indagato.  Non serve essere un buon magistrato per capire quale era la situazione prospettata e messa nero su bianco.

Tutte firmavano un contratto accettando di “attenersi” – si legge negli atti – “a un dress code suddiviso in classico per gli eventi burocratici, intermedio per corsi e convegni ed estremo per eventi mondani”. Si impegnavano a “curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società”.  Firmavano un’imposizione che parlava di abbigliamento “estremo: gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza”. O “intermedio: gonna corta (da 1/3 a 1/2 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche”. C’era il “classico: gonna sopra il ginocchio (da 1/2 a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati”. Calze, giacche, giorni utili alla depilazione, foto su Facebook più o meno consentite e trucchi adeguati. Vessazioni quotidiane e umiliazioni. A tutto questo sottostavano le vittime di un manipolatore, gli aspiranti magistrati, o quelle ragazze che alla fine stanno realmente esercitando la professione.

Ma tutto ciò che immagine restituisce di una magistratura già dilaniata? La faccenda è andata avanti a partire dal 2011. Chi controlla gli allevamenti dei magistrati? Cosa ci aspettiamo da chi viene formato sottostando a certi contratti? Se si raccoglie un frutto che è stato avvelenato che risultati si hanno? Sono domande importanti in un momento in cui occorre ripristinare con urgenza l’onorabilità di una magistratura che è stata sempre l’istituzione più alta di questo paese, capace di fornire eroi come Falcone e Borsellino, pensatori come Pietro Calamandrei e un esercito di professionisti che quotidianamente e in silenzio si batte per far si che i diritti dei cittadini non vengano trasformati in privilegi. Perché occorre chiedersi fin dove le persone possano spingersi una volta preso un incarico. Se un aspirante pm è disposto a farsi imporre gli abiti o le foto sui social, cosa farà dopo?

Sono numerosi i casi di pm e giudici che per ambizione o denaro hanno piegato la schiena ai potenti: il caso Palamara, quello che ha riguardato il giudice Russo o il collega De Lipsis. Si potrebbe stilare un lungo elenco. E invece un inquirente degno di questo nome non guarda in faccia nessuno.

C’è anche un’altra questione: come ha fatto Bellomo ad agire in questo modo per tanti anni arrivando ai vertici del Consiglio di stato e a gestire una scuola di formazione e una rivista scientifica? A detta di studenti e amici era una sorta di genio. Una persona molto preparata e impeccabile professionalmente. Altro paio di maniche, secondo le accuse, erano i suoi comportamenti e le torture psicologiche che infliggeva agli studenti. Ancora una volta sorge il tema dei controlli psico-attitudinali sui magistrati e sugli insegnanti. Un tema trattato più volte e ribadito nel giugno scorso dal ministro della Pubblica amministrazione: “Ci vuole anche una verifica psicoattitudinale: non può diventare giudice solo chi è più bravo degli altri a imparare a memoria i codici e la giurisprudenza, sono indispensabili anche doti caratteriali di equilibrio e buon senso – aveva detto Giulia Bongiorno, che ha una lunga esperienza tra i corridoi dei tribunali italiani – Poi, una volta superato l’esame, serve una formazione accurata e completa e se, vinto il concorso, il tirocinio va male, dev’essere inibita ogni possibilità di accesso alla magistratura…”.

Il lavoro del magistrato, così come quello dell’insegnante, espone maggiormente alla sindrome del burnout. Le statistiche, come quelle stilate da Vittorio Lodolo D’Oria, rilevano che esistono categorie più esposte a problemi psicologici a causa del forte stress subito. Uno stress che spesso si ripercuote sugli alunni, nel caso degli insegnanti, e sugli imputati, nel caso dei magistrati. Perché anche se non si tratta di medici, occorre non scordarsi che le vite di molte persone dipendono dalle scelte che un pm o un giudice prende. Per questo occorre non solo una forte preparazione e un attaccamento alle regole, ma anche un sano equilibrio mentale.

Il caso Bellomo è un fatto grave ed è una spia allarmante della formazione dei nuovi magistrati, ma forse può servire ad aprire una riflessione sull’esigenza di maggiori controlli a tutela di un’istituzione che occorre salvaguardare urgentemente.

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