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giovedì, Mar 26

Il coronavirus cambierà per sempre il commercio globale?



Da Wired.it :

La supply chain globale – un ibrido di produzione, trasporto, distribuzione e commercio dai tratti sempre più sfumati – è la prima vittima illustre della pandemia, che ha evidenziato la fragilità delle catene di distribuzione del pianeta

Punta dell’iceberg: ecco un’espressione molto in voga. Della pandemia vediamo solo la punta dell’iceberg – si dice – e i contagi reali sono molto più numerosi. O forse no, non è vero, stiamo in effetti vedendo gran parte dell’iceberg. Non lo sappiamo ora e difficilmente lo sapremo in futuro. Sapete di cosa per certo non vediamo che la punta dell’iceberg? Delle pizze consegnate a casa, delle spese a domicilio. Quelle sono davvero le punte di un iceberg: un iceberg immenso chiamato supply chain, rispetto alla quale la mano che ci porta sul pianerottolo la pizza e la spesa (con un evidente rischio per la sua salute) è solo il terminale di una lunga catena, il cui attuale sovraccarico fa sì che scopriamo di non amare le penne lisce, che ci ricordiamo che altrove non esistono i bidè e che la carta igienica vada a ruba. Una punta dell’iceberg nota in gergo come ultimo miglio, ovvero l’ultimo tratto di distanza che una merce ha da compiere prima di raggiungere il destinatario finale: voi, noi, i consumatori. 

Sono catene, la distribuzione e la logistica, così essenziali al funzionamento delle nostre società da essersi camuffate col panorama. Così intrecciate al tessuto del quotidiano che le abbiamo perse di vista. Il che è paradossale: plasmano il mondo da 4000 anni almeno. Hanno fatto e disfatto la fortuna di leggi e tecnologie, generali e confini, imperi e sistemi economici, politici e azionisti. Non sono, ovviamente, sempre state così complesse e pervasive come oggi. Un tempo si occupavano soltanto di muovere cose e persone da un punto A a un punto B del mondo. Ai tempi degli Assiri si trattava di stagno e tessuti attraverso gli altopiani rocciosi dell’Asia minore, stimolando la nascita delle prime forme di inventario e lo sviluppo della scrittura. Più tardi cominciarono a spostare la seta dai lembi più remoti della Cina fino a Roma, tramite i mercati di Samarcanda e Bukhara. Nel XVI secolo caricavano le spezie delle Molucche sui galeoni olandesi o – in uno dei commerci più nefandi di sempre – uomini, donne e bambini africani sulle guineamen portoghesi, spagnole e inglesi.

A volte tra le merci che trasportavano si mimetizzavano ospiti indesiderati. Per esempio: il batterio della peste che nel Trecento decimò la popolazione europea sbarcò in per la precisione a Messina, da alcuni mercantili genovesi giunti dal Mar Nero. I trasporti e il commercio hanno fatto la storia dell’umanità più di molte correnti filosofiche, idee politiche, teorie economiche. Anzi, come aveva intuito tra gli altri nientemeno che Marx, hanno fatto la storia di quasi qualunque corrente filosofica, idea politica e teoria economica. Prendete la globalizzazione. Un concetto di cui discutiamo spesso in astratto e in termini puramente culturali ma che, in realtà, deve il proprio boom nel dopoguerra a una innovazione del trasporto a bassissimo tasso di astrazione: una scatola di metallo dotata di caratteristiche standard; il container intermodale. A partire da fine anni ’50, il container consentì di spostare merci con una velocità e convenienza tale da finire per eccedere gli scopi per cui era nato. Studiando l’abbattimento di tempi e costi che permetteva, ci si rese presto conto che non era solo uno strumento di trasporto più efficiente di quelli utilizzati in passato. Di fatto poteva diventare la pietra angolare per una rivoluzione dell’intera filiera produttiva mondiale. Muovere container era così economico che, per la prima volta nella storia, per un’azienda era diventato molto più conveniente produrre altrove – dove il costo del lavoro era irrisorio – che nel proprio paese d’origine.

Non solo: si comprese che pianificando un’accurata analisi del costo totale di una filiera e strutturando un sistema integrato di circolazione dei componenti necessari ai suoi prodotti, la containerizzazione poteva trasformare intere aree del pianeta in un’enorme catena di montaggio. In altre parole: l’industria dei trasporti smise di spostare semplicemente merci finite da un luogo di produzione a un punto di vendita, e divenne una parte essenziale dei processi industriali. Smise di essere annoverata alla voce costi e passò a quella valore aggiunto

In occidente e in Giappone la rivoluzione del container esplose tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, anche in virtù di una serie di deregolamentazioni senza precedenti che toccarono il settore dei trasporti e, soprattutto, lo statuto dei suoi lavoratori. Provvedimenti inediti ma destinati a far scuola per tutta una fase storica di ulteriori e successive deregulation (dal mercato del lavoro a quello finanziario). È in virtù di questo mutamento di processi industriali e strutture salariali che interi distretti produttivi, con i loro milioni di colletti blu, migrarono dall’occidente avanzato per trasferirsi nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. A beneficiarne furono soprattutto le economie che, per caratteristiche politiche e demografiche, offrivano le migliori condizioni per ospitare le attività produttive. In primis, ovviamente, la Cina di Deng Xiaoping che nel giro di tre decadi convertì un’economia ancora rurale nel motore industriale del mondo. Prese in tal modo piede l’idea che il miglior funzionamento del sistema globale fosse la divisione del pianeta in aree di consumo da un lato e distretti di produzione – spesso iper-specializzati – dall’altro.

Mentre gli stati continuavano a pensare in termini di confini e sovranità, la supply chain globale – ormai un ibrido di produzione, trasporto, distribuzione e commercio dai tratti sempre più sfumati – ragionava già secondo una rete inter- e intra-nazionale di rotte navali e aeree, centri di raccolta e di distribuzione, protocolli informatici e hub commerciali, zone franche e compagnie offshore. Un flat world (mondo piatto), come da una celebre definizione di Thomas Friedman, appositamente livellato per permettere la circolazione di materiali, denaro e merci senza attriti naturali, culturali, politici, giuridici. Un abbattimento dei confini che ha fatto la fortuna di migliaia di aziende, dal retail alla farmaceutica, dall’automobile al tech. Se vi siete mai chiesti com’è possibile che stia pagando 1 quello che mio nonno avrebbe pagato 100 e mio padre 10? la risposta, in gran parte, ha a che fare con questo sistema di circolazione e stretta interdipendenza globale.

Quando costruisci un sistema di scatole cinesi, il problema è che sai con quante scatole sei partito ma non con quante finirai. Prendiamo il caso di un’azienda che chiameremo Pippo. Immaginiamo che Pippo produca e venda una merce che consiste di dieci componenti. Normalmente Pippo compra questi dieci componenti da svariati produttori sparsi in giro per il mondo che offrono le migliori condizioni per ciascuno. Dopodiché spedisce tre di essi in un qualche luogo – facciamo in Vietnam – per assemblarli. Altri sette invece li fa lavorare altrove – diciamo in Cina – perché un’analisi dei costi totali della sua supply chain ha dimostrato che è più conveniente in questo modo. Ottenute queste due metà del proprio prodotto, Pippo le fa arrivare in un terzo posto ancora, diciamo in Germania, e lì le mette definitivamente insieme controllando che ogni singolo esemplare sia il più rifinito possibile. Sono già un sacco di passaggi per sembrare un sistema di sostenibile, no? E infatti, secondo diverse stime, la grande maggioranza (70/80%) di ciò che viaggia nei container in giro per il mondo non è un prodotto finito bensì un componente. Se di fronte a una nave da cargo avete immaginato migliaia di smartphone, lavatrici e scarpe da ginnastica, vi sbagliavate. In realtà stavate guardando una montagna di circuiti, resine e parti meccaniche.

Sono già un sacco di passaggi, dicevamo. Tuttavia non sono che un’ennesima punta dell’iceberg. Già perché quello che Pippo non sa – o su cui comunque non può avere un completo controllo – è che ciascuna delle aziende da cui acquista uno dei suoi famosi dieci componenti dipende a sua volta dalla propria supply chain per il rifornimento di materie prime, o di ulteriori componenti indispensabili alla realizzazione di quelli che vende a Pippo. Immaginate il prodotto finito di Pippo come un fiore e la supply chain come una pianta. Proprio come con una pianta, più si scende in profondità verso le radici e più le cose si fanno intricate.

Dovrebbe a questo punto essere chiaro come un sistema così fragile e interdipendente, si regga per vocazione su un non detto molto rischioso: che tutto fili liscio. Cioè l’esatto opposto di questo 2020. È infatti già ora evidente – quando la pandemia potrebbe essere solo all’inizio – che c’è qualcosa di profondamente squilibrato in un sistema costruito su tanta opacità. E l’allarme non proviene da esponenti della sinistra radicale ma da chi rappresenta gli interessi stessi della supply chain: consulenti economici, analisti di hedge fund, esponenti del mondo della logistica. Già a inizio febbraio, quando il nuovo virus circolava quasi solo in Asia, uno studio della Dun&Bradstreet rilevava come, sulle prime 1000 imprese americane per fatturato, la supply chain di 938 era in qualche modo già stata impattata dal contagio. Ovvero che la normale operatività di queste aziende dipendeva più o meno significativamente da altre in zone di quarantena della Cina. Meno di un mese dopo, un report di Resilinc (agenzia di consulenza specializzata in supply chain) citato dall’Harvard Business Review, illustrava come l’intero settore dell’automobile mondiale poggi su una filiera di 3.182 centri di produzione o smistamento localizzati tra Cina (2730) e Italia (452). Il che non sorprende, se si considera che i principali conglomerati dell’automobile producono ormai direttamente il 25% di ciò che mettono nelle loro vetture e dipendono da un’ecosistema a numerosi livelli di fornitura. Basta che uno di questi livelli si inceppi – che, per esempio, la fabbrica che produce il corpo in ceramica delle candele venga messa in quarantena – per non avere più un motore. Specie perché, in condizioni normali, la rapidità della supply chain ha portato, in numerose aziende, l’imporsi di una metodologia di produzione, originariamente implementata negli anni ’70 da Toyota, nota come just-in-time. Una metodologia che, per abbattere i costi operativi delle imprese, suggerisce non solo di limitare al minimo le scorte di magazzino ma anche il numero di fornitori alternativi di un certo componente.

Un altro problema è che la corsa al prezzo più basso, specie in industrie ad alto tasso tecnologico, ha concentrato la produzione di specifici componenti solo in alcuni distretti regionalmente distribuiti, così da sfruttarne specifiche condizioni del mercato del lavoro (spesso un delicato rapporto tra qualifiche e costo) o vantaggiose agevolazioni fiscali. È per questa ragione che il 22% della produzione mondiale di semi-conduttori è concentrata a Taiwan e il 67% di essa dipende da una singola azienda – la Tsmc – un fornitore vitale, tra gli altri, di Apple (che peraltro a sua volta dipende da un fornitore olandese che, a sua volta, dipende da un fornitore tedesco). 

Finché parliamo di automobili e cellulari, simili questioni possono anche destare preoccupazioni relative. Quando parliamo di settori letteralmente vitali le cose cambiano. Anche se esistono comunque protocolli e certificazioni atti a minimizzare i rischi di approcci troppo spericolati alla supply chain, molto della cultura manageriale appena descritta ha per esempio infiltrato anche il settore alimentare e farmaceutico. Per fare un solo esempio molto macro: l’India, ovvero il più grande esportatore di farmaci generici al mondo, dipende per i loro ingredienti al 70% dalla Cina. E sapete qual è una delle regioni cinesi più specializzate nella lavorazione di principi attivi per farmaci banalissimi come l’ibuprofene? L’Hubei. 

La cosa più sorprendente è forse constatare come il cigno nero del virus non abbia sorpreso nessuno degli esperti di supply chain, inclusi i suoi più strenui sostenitori. Dal post-11 settembre allo tsunami giapponese fino alla recente guerra commerciale Usa/Cina, negli ultimi vent’anni non sono, del resto, mancate le occasioni per apprezzare la fragilità delle catene di distribuzione globali. Ogni volta però la razionalità poco lungimirante del mercato ha prevalso su qualunque principio di sostenibilità dell’ecosistema logistico che negli ultimi 60 anni ci siamo costruiti intorno, un mattoncino alla volta, dal container alla blockchain. Il coronavirus potrebbe però essere diverso. Anche solo perché non sarà un singolo shock localizzato nel tempo e delimitato nello spazio, ma un’onda lunga di scosse che si propagherà in tutto il mondo. Se non capiremo che la risposta non potrà essere soltanto – come alcuni già suggeriscono in queste settimane – un’ulteriore iniezione tecnologica negli ingranaggi della supply chain ma un ripensamento della sua intera infrastruttura e dei principi su cui poggia, la prossima onda sarà probabilmente peggio. 

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[Fonte Wired.it]